Persino le foto di Luca Parmitano dalla ISS, qualche settimana fa, ci hanno mostrato le colonne di fumo levarsi dalla Foresta amazzonica. Mentre gli occhi di tutti sono puntati sul Brasile, le fiamme di oltre 10 mila incendi appiccati dai contadini lambiscono la foresta pluviale africana, tra Angola, Zambia e Repubblica Democratica del Congo. Brucia la vegetazione del Borneo, in Indonesia, e fanno altrettanto sterminate regioni di Alaska, Canada, Siberia e Groenlandia. Per dirla con un termine giornalistico, chiamato in causa dal New Scientist, sembrerebbe l'inizio di una nuova era - quella del Pirocene.
Ma davvero, nell'estate 2019, gli incendi sono aumentati? Saremo costretti ad abituarci a questo nuovo ritmo di distruzione? E quale ruolo giocano, in tutto questo, i cambiamenti climatici?


Che cosa è cambiato (e cosa no). Si potrebbe pensare che gli incendi globali siano in aumento, ma al momento non ci sono prove che sia così. In base a uno studio satellitare della NASA pubblicato nel 2017, la quantità di terra bruciata nel mondo è diminuita di circa il 25% negli ultimi 18 anni, forse grazie a una migliore gestione delle foreste.
Secondo il Copernicus Atmosphere Monitoring Service (CAMS), un programma di osservazione atmosferica dell'Unione Europea, nella prima metà del 2019 si sono levate, dagli incendi di tutto il mondo, 3500 megatonnellate (cioè milioni di tonnellate) di anidride carbonica: un valore in media con quelli degli ultimi 16 anni.
La foresta continua a bruciare.
— Luca Parmitano (@astro_luca) August 29, 2019
The forest continues to burn. #Amazonfires #MissionBeyond pic.twitter.com/L2ENiVSLYy
Non dovrebbe accadere. La vera e preoccupante novità di quest'anno è la grande quantità di incendi nelle regioni artiche, una circostanza senza precedenti. Da luglio sono andati in fumo milioni di ettari della foresta siberiana; in Alaska, dove le temperature a luglio hanno toccato i valori più alti di sempre (32 °C ad Anchorage, la città più grande) gli incendi hanno consumato oltre 9.700 km quadrati di tundra e foresta invernale.
Persino la Groenlandia, che per quattro quinti è ricoperta di ghiacci, ha visto divampare incendi in zone prima occupate dal permafrost, a 150 km dal Circolo polare artico. Quest'anno, gli incendi nell'Artico hanno provocato un'emissione di 173 megatonnellate di CO2, oltre tre volte e mezzo le emissioni annuali della Svezia, il valore più alto dal 2003.


Polveriere naturali. A differenza dei roghi dolosi dell'Amazzonia, gli incendi nell'Artico sono legati alle alte temperature, che inaridiscono foreste solitamente molto umide e favoriscono gli incendi spontanei.
Parliamo di foreste di torba, ricchissime di combustibile naturale e spesso lontane da insediamenti umani: un fulmine è sufficiente a innescare un rogo poi difficile da domare.
Il riscaldamento globale che nell'Artico avanza a doppia velocità non solo alza le temperature: rende più frequenti i temporali (e i lampi), più sporadiche le nevicate.


Senza via di uscita. Questi incendi alimentano lo stesso circolo vizioso da cui hanno origine. La scura cenere di torba che si alza dai roghi si deposita sui vicini ghiacciai, che assorbono l'energia solare anziché rifletterla, accelerando i processi di fusione.
La CO2 liberata (non solo quella dei processi di combustione, ma anche quella sequestrata dalle torbiere sottostanti) appesantisce il carico di gas serra in atmosfera, peggiorando il global warming, e gli alberi bruciati lasciano esposto e non protetto il permafrost - terreno di norma ghiacciato. La fusione del permafrost libera, manco a dirlo, altra anidride carbonica, e metano.
Come andrà a finire? Nei prossimi anni, con l'Artico sempre più arido e fragile, gli incendi alle alte latitudini sono destinati ad aumentare. In altri luoghi al momento in fiamme - Africa, Indonesia, California, Amazzonia - gli incendi sono un fenomeno più tipicamente stagionale, strettamente legato alla deforestazione e a pratiche agricole più o meno legali, inizialmente appiccati dalla mano dell'uomo, prima che se ne perda il controllo. Di questi roghi abbiamo una responsabilità ancora più diretta: è l'uomo che li origina, e sono i cambiamenti climatici innescati dall'uomo che li rendono sempre più difficili da estinguere.