Ecologia

Sacchetti di plastica biodegradabile nei supermercati: quello che c'è da sapere

Ora che la polemica politica sui "biosacchetti" sembra essersi placata, facciamo un po' di chiarezza: bioplastiche e plastiche biodegradabili sono la stessa cosa? Da che cosa si ricavano? Risolveranno i problemi di inquinamento?

Se negli ultimi giorni avete frequentato i social o i telegiornali, di polemiche su come imbustare gli ortaggi al supermercato ne avrete ormai i sacchetti pieni. Eppure, anche in questa "generosa" abbondanza di informazioni alcune questioni rimangono fumose: che cosa prevede, esattamente, la legge entrata in vigore il 1° gennaio? C'è differenza tra bioplastiche e plastiche biodegradabili? Con che cosa sono fatti questi prodotti? Che cosa c'entra il compostaggio? Per davvero questo impopolare provvedimento avrà un effetto positivo sulle maree di plastica che soffocano gli oceani? Sono tante domande: cerchiamo di fare un po' di ordine.

CHE COSA DICE LA LEGGE? La nuova legge, approvata lo scorso agosto ed entrata in vigore il 1° gennaio 2018, prevede che i sacchetti di plastica ultraleggera, con spessore della singola parete inferiore a 15 micron (0,015 millimetri: vedi anche La scala delle cose) utilizzati nei supermercati per imbustare frutta, verdura o altri alimenti freschi sfusi, devono essere biodegradabili, compostabili e certificati, con un contenuto minimo di materia prima rinnovabile non inferiore al 40%.

La legge, che recepisce una precedente direttiva europea sulla riduzione dell'utilizzo di plastica ultraleggera, impone agli esercenti di utilizzare soltanto buste con quelle precise caratteristiche al posto dei normali sacchetti - che vengono gettati più spesso e sono, anche per questo motivo, tra i principali responsabili dell'inquinamento dei mari (dai micro frammenti fino alle famigerate isole di plastica).

La nuova norma impone anche di indicarne esplicitamente il prezzo sullo scontrino (da 1 a 3 centesimi: si pagavano anche prima dell'entrata in vigore della legge, ma non era specificato). Nei prossimi anni la percentuale minima di materia prima rinnovabile nelle buste dovrà salire al 50% (nel 2020) e poi al 60% (2021).

Non tutte le bioplastiche sono biodegradabili: perché si dissolvano completamente devono rispondere ad alcuni requisiti. © Shutterstock

Bioplastiche e plastiche biodegradabili: sono la stessa cosa? Come ricorda Il Fatto Alimentare, che riprende a sua volta un documento che il governo olandese ha commissionato all'istituto Wageningen University & Research (e che trovate qui, in inglese), i due termini vengono spesso usati come sinonimi, ma non lo sono.

Un prodotto a base bio (bio-based) come la bioplastica è interamente o parzialmente ricavato da biomassa, un materiale di origine biologica - come la carta o il legno - e non include componenti di origine fossile (come carbone o petrolio). Per biodegradabile si intende invece un materiale che possa essere degradato da batteri o funghi in acqua, in aria o gas naturale o in biomassa.

Una bioplastica può essere biodegradabile (lo è per esempio l'acido polilattico o PLA) ma può anche non esserlo (non lo è la Bio-PET che in alcuni casi sostituisce le bottiglie di plastica tradizionale).

Anche un polimero ottenuto da combustibili fossili può essere biodegradabile (lo è il Pbs, utilizzato per alcuni tipi di packaging), ma in genere i più usati e diffusi non lo sono.

Questo perché la biodegradabilità è legata
# alle condizioni ambientali in cui il rifiuto è lasciato,
# al tempo in cui vi rimane,
# alla temperatura in cui si troverà,
# alla presenza di ossigeno o di microrganismi che lo possano digerire.

Materia prima rinnovabile: che cosa significa? La nuova legge parla di contenuto di materia prima rinnovabile non inferiore al 40%: per rinnovabile si intende una risorsa che la natura riesce a sostituire in un arco di tempo paragonabile a una vita umana, a differenza delle fonti fossili che si riformano in milioni di anni - e che per questo sono in esaurimento. Non è detto che le bioplastiche siano tutte, per forza rinnovabili: quelle ricavate dalla torba (un deposito di resti vegetali impregnati d'acqua), per esempio, non lo sono (vedi più sotto "Da dove si ottiene la bioplastica").

Perché le buste devono essere anche "compostabili"? Biodegradabili non basta? La dicitura biodegradabile non è sufficiente, se non accompagnata da indicazioni sui tempi e sulle condizioni che rendono possibile la degradazione del rifiuto. Le condizioni di compostaggio industriale richiedono una temperatura di 55-60 °C, un'alta percentuale di umidità e la presenza di ossigeno. Queste sono le condizioni ottimali affinché un rifiuto venga "demolito" e sono riassunte dalla norma europea EN 13432.

La nuova legge dispone dunque che i sacchetti rispondano a questi requisiti:
# in primo luogo devono essere biodegradabili e compostabili,
# poi, che in gran parte provengano da fonti a base bio.

Da dove si ottiene la bioplastica? Si ricava da prodotti agricoli (mais, grano, tapioca, patate, canna da zucchero); da amidi e bucce vegetali; dalla fermentazione di zuccheri o lipidi; da oli vegetali, dalle alghe, dalla cellulosa...

La bioplastica ha un minore impatto ambientale? Per quanto riguarda i gas serra emessi e i consumi energetici, sì. Tuttavia, i prodotti bio-based possono avere altri effetti ambientali negativi, come la riduzione delle derrate alimentari, con l'occupazione di suolo agricolo (per esempio se derivati dal mais); o l'eutrofizzazione del suolo (cioè l'accumulo di alte concentrazioni di fertilizzanti) e la sua acidificazione.

Le bioplastiche salveranno i nostri mari da sacchetti e bottiglie abbandonati? Non del tutto. Ma è meglio di niente... © Shutterstock

La plastica biodegradabile risolverà l'inquinamento da plastica negli oceani? Purtroppo no, ma è sempre meglio della plastica tradizionale. Anche se ciò che si degrada nel suolo lo fa tendenzialmente anche in acqua, i tempi di dissoluzione rimangono lunghi: per esempio, i polimeri che si degradano in pochi mesi fanno in tempo ad essere pericolosi per la fauna acquatica, e a entrare nella catena alimentare.

In realtà, se consideriamo la quantità di rifiuti plastici che finiscono in mare, bisognerebbe ripensare all'intero concetto di packaging.

E quindi? è meglio portare i sacchetti da casa? Con una nota del 4 gennaio 2018 il Ministero della Salute ha reso noto che i consumatori potranno portarsi da casa i sacchetti per acquistare frutta e verdura al supermercato... a patto che siano per alimenti e monouso (quindi nuovi!).

In pratica, una concessione inutile: se dobbiamo portarli nuovi da casa, tanto vale usare quelli nuovi del supermercato, che molto probabilmente li distribuirà a un prezzo inferiore a quello delle confezioni in vendita.

Inoltre, le proprie buste sarebbero da evitare anche per un discorso di igiene: se non sono nuovi, i sacchetti portati da casa potrebbero contenere residui di alimenti o provenire da condizioni inadatte di umidità che favoriscono la proliferazione di batteri. Il rischio di contaminare la merce mettendo a rischio la propria salute - e quella degli altri - è alto.

9 gennaio 2018 Elisabetta Intini
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