Che la cura del corpo abbia un costo (salato) per l'ambiente lo hanno già confermato diversi studi. Un esempio: shampoo e cosmetici rilasciano nell'aria composti chimici della classe dei silossani, che inquinano quasi come il benzene.
Adesso un rapporto pubblicato dall'IUCN (IUCN, Unione Mondiale per la Conservazione della Natura), Oil palm and biodiversity, lancia un nuovo allarme: le coltivazioni di palma da olio per l'industria di trucchi e make up hanno anche loro un impatto sensibile sull'ambiente. Un allarme che si aggiunge a molti altri, che riguardano applicazioni dell'olio di palma che vanno dall'industra alimentare a quella dell'energia (con questo prodotto che fa da base a un biodiesel, un impropriamente detto combustibile verde).
Per quanto riguarda i prodotti di bellezza, la richiesta di grassi vegetali fa la sua parte nel contribuire ai rischi di estinzione di alcune specie animali, come gli oranghi (primati del genere Pongo), chiamati così dalla parola malese orangutan, che significa uomo della foresta.
Ma il lavoro dell'IUCN è impietoso: coltivare olii alternativi può diventare un rischio ambientale ancora maggiore. Che fare?
La palma da olio è una minaccia per la biodiversità. Per far spazio alle piantagioni, vengono "bonificate" (rase al suolo, bruciate) vaste aree di foresta tropicale e, di conseguenza, si mette a rischio la sopravvivenza delle specie animali di quegli habitat. Per l'orango, pacifica scimmia ominide, è un'ecatombe: un'articolo pubblicato su Current Biology nel febbraio di quest'anno, firmato da un'imponente schiera di ricercatori di tutto il mondo, stimava che nel periodo 1999-2015 sono stati uccisi più di 100.000 oranghi del Borneo (Pongo pygmaeus).
Il sequestro del territorio forestale e la deforestazione spingono i primati in cerca di cibo ad avvicinarsi agli insediamenti e alle nuove coltivazioni, dove spesso vengono uccisi. In più, la specie è lenta a riprodursi: per tutti questi motivi lo IUCN ritiene che la sua sopravvivenza sia fortemente a rischio, a meno di "cambiare le regole del gioco".
Al momento le coltivazioni di palma da olio sono responsabili dello 0,4% della deforestazione globale, ma, come mostra la mappa qui sotto, sono estremamente concentrate, in una regione relativamente piccola, che include Indonesia e Malesia - che dall'estrazione di olio di palma ricavano qualcosa come 40 miliardi di dollari l'anno.
Che fare. Secondo gli autori dello studio promosso dall'IUCN, le alternative non sono a "costo zero". Il mondo avrà sempre bisogno di grassi vegetali, e se per adesso l'olio di palma è il più utilizzato è perché la sua lavorazione risponde a criteri industriali di efficienza.
Sostituire questa coltivazione, affermano alcuni esperti, per esempio con colza, soia o girasole richiederebbe, per rispondere alle richieste del mercato, un'estensione globale nove volte superiore, con conseguenze proporzionali sulla biodiversità. Va detto che questa visione di possibili alternative non tiene conto del fatto che mentre la palma da olio può essere coltivata solamente nelle aree tropicali, colza, soia e girasole possono essere coltivati ovunque e, a rotazione, su terreni già usati per altre coltivazioni. La questione delle alternative andrebbe dunque approfondita.
Tavola rotonda. Esiste allora qualcosa che possa passare per produzione sostenibile di olio di palma?
Quello che sembra mancare è la reale volontà sia da parte dei governi interessati, sia da parte delle popolazioni locali - che in quell'industria hanno la loro fonte di reddito. Nonostante le molte iniziative internazionali di sensibilizzazione al problema e alcuni tentativi per identificare almeno qualche area di foresta, in Malesia e Indonesia, da preservare in nome della biodiversità, finora si è fatto poco.
A tentare una mediazione tra interessi economici e ambientali è, da alcuni anni, la (RSPO, Roundtable on Sustainable Palm Oil), una sorta di commissione di confronto permanente a cui partecipano associazioni e produttori, voluta da questi ultimi in risposta alle campagne di boicottaggio dei prodotti contenenti olio di palma, lanciate in questi anni da diverse associazioni di consumatori. In teoria, la RSPO dovrebbe garantire "scelte responsabili" da parte dei governi interessati e dei grandi coltivatori di palme da olio: non sembra avere molto successo, ma forse è presto per dirlo.
Quanto a noi, nel nostro piccolo possiamo contribuire a indirizzare le politiche agricole scegliendo prodotti ottenuti con grassi vegetali certificati: forse non farà una grande differenza, ma ci aiuterà almeno a ricordare a quale prezzo sono fatti i prodotti che acquistiamo.