Ecologia

Giornata mondiale dell'ambiente: Mediterraneo instabile

Gli scossoni dei cambiamenti climatici sulla sicurezza alimentare, la biodiversità e il futuro del Mediterraneo: intervista a Grammenos Mastrojeni.

Nella Giornata mondiale dell'ambiente, che si celebra ogni anno il 5 giugno e che in questo 2021 è dedicata al "Ripristino degli ecosistemi", abbiamo posto qualche domanda sullo stato di salute del nostro ecosistema - quello del Mediterraneo - a Grammenos Mastrojeni, Vice Segretario Generale per l'Energia e l'Azione Climatica dell'Unione per il Mediterraneo, diplomatico con un passato di coordinatore per l'eco-sostenibilità nella Cooperazione allo Sviluppo. I temi generali trattati sono:

  • qual è il rischio più grande e meno considerato dei cambiamenti climatici;
  • in che modo il global warming modella la nostra identità;
  • che cosa c'entra l'effetto farfalla con l'economia sostenibile.

La regione Mediterranea è una delle aree più a rischio al mondo per gli effetti dei cambiamenti climatici. Perché? «A livello atmosferico l'area mediterranea si riscalda il 20% più velocemente rispetto alla media globale (ha già raggiunto +1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali) e ancora di più si riscaldano le sue acque. Tutto questo comporterà un deficit di risorse, con 250 milioni di persone in scarsità idrica entro due decenni, e un rapido innalzamento del livello del mare dovuto soprattutto alla dilatazione termica dell'acqua.

Il problema non è soltanto l'aumento di un metro o più entro fine secolo, ovvero l'acqua che ricopre le terre: i 20-25 cm di innalzamento previsti entro una decina d'anni determineranno il cuneo salino, la penetrazione di acqua salata nelle terre costiere, che diverranno così sterili per l'agricoltura. Un fenomeno che avrà l'impatto maggiore in aree come il Delta del Nilo, dove la salinizzazione può mandare in tilt l'agricoltura di sussistenza di milioni di persone».

Le conseguenze si notano già adesso? «La storia del Mediterraneo è stata caratterizzata dalla rivoluzione agricola. Questa massa d'acqua chiusa ha determinato una situazione climatica favorevole che ha reso tutto più prevedibile: l'arrivo dei frutti, i parti degli animali. Questa prevedibilità è l'unica condizione che permette di passare da utenti a organizzatori dell'ecosistema. Noi possiamo considerarci Europa e non una semplice estensione dell'Asia proprio perché beneficiamo di questo clima un po' speciale.

Ora però la parte meridionale dell'Europa inizia ad avere un clima più affine a quello del Nord Africa. Con i cambiamenti climatici l'anticiclone delle Azzorre fin qui elemento unificante della nostra identità mediterranea, che favoriva un clima mite per l'agricoltura, è scalzato dagli anticicloni africani, che portano siccità.

Questo cambio di clima sta modificando gli equilibri europei, a partire dalle rotte navali. Nel nord Europa, con la fusione dei ghiacci artici, si stanno aprendo due passaggi a nord operativi per la navigazione, mentre il canale di Suez sta perdendo valore. Allo stesso tempo stanno aumentando spinte economiche e commerciali unificanti tra la sponda sud del Mediterraneo e la sponda settentrionale dell'Africa».

Secondo la World Meterological Organization e il Met Office c'è il 40% di probabilità che la temperatura media annuale globale arrivi a sforare i +1,5 °C dai valori di riferimento entro i prossimi 5 anni. «Il grado e mezzo non è un problema di per sé, ma c'è forse stato un errore di comunicazione da parte degli scienziati, che non hanno capito che le persone processano da prima la componente emotiva del messaggio.

Dire che la temperatura è aumentata di un grado in 200 anni non fa di per sé notizia. Quello che si dimentica di dire è che questo si traduce in un eccesso di energia che introita il sistema Terra, l'equivalente dell'esplosione di 410mila bombe atomiche al giorno, energia non incanalata nel sistema che si trasforma in disordine. Sul Mediterraneo, per le ragioni che abbiamo spiegato, il caos è più rapido e più esacerbato. I media di solito parlano dell'impatto dei cambiamenti climatici sulla fisiologia umana (ondate di calore), dell'impatto degli eventi climatici estremi sulle infrastrutture, ma non si parla abbastanza dell'imprevedibilità del clima che fa venir meno servizi ecosistemici essenziali, cicli da cui continuiamo strettamente a dipendere.

Quando parliamo di clima parliamo di valore, di biodiversità. I cambiamenti climatici desincronizzano i meccanismi su cui prolifera la biodiversità ed esercitano su di essa una pressione fortissima. A questo si aggiungono gli interventi umani più diretti, come l'inquinamento da plastica che oltre ad avvelenare il Mediterraneo, un mare grande ma pur sempre un sistema chiuso, crea anche un problema commerciale per i pescatori: sempre più spesso ci si imbatte in macroplastiche visibili nel pescato. Oltre a questo ricordiamo l'inquinamento industriale e la perdita di biodiversità anche attorno alle acque del Mediterraneo, nei prodotti agricoli e nella copertura forestale: certi prodotti agricoli esistono da noi grazie a una serie di biomi che portano ricchezza nel suolo e rappresentano una fonte di reddito enorme».

Il Nobel per la pace 2020 è andato al Programma alimentare mondiale. In che modo la resilienza alimentare è legata alla pace e alla guerra? «Il Nobel per la pace 2020 fa parte di una serie di tre Nobel collegati: quello dato nel 2004 a Wangari Maathai, una veterinaria keniota che ha creato alleanze di donne nelle aree rurali più disagiate del suo Paese, e le ha incoraggiate a piantare alberi attorno ai villaggi (fondò il Green Belt Movement, un'associazione per ripopolare di piante il territorio africano attraverso la manodopera agricola femminile, ndr).

Le fu dato il Nobel per la pace per aver contribuito "allo sviluppo sostenibile, la democrazia e la pace", un collegamento all'epoca non scontato. Nel 2007 il premio ad Al Gore e al comitato intergovernativo per i cambiamenti climatici dell'ONU ha reso esplicito il collegamento tra natura in salute e mondo pacifico. E infine questo del 2020 al World Food Programme per gli sforzi nel combattere la fame nelle aree di conflitto.

Sicurezza alimentare e pace sono collegate, nel Mediterraneo ce ne siamo accorti dapprima con le Primavere arabe, che sono state un moto politico, ma preceduto da quattro anni di moti per il pane. I cambiamenti climatici avevano colpito i grandi produttori di cereali come l'Ucraina e l'Australia facendo diminuire i raccolti e generando un aumento dei prezzi. Su questa situazione si è innescato il mercato dei biocarburanti, che hanno sottratto terreno all'agricoltura e creato pressioni sull'offerta, provocando un ulteriore aumento dei prezzi e creando quattro milioni di nuovi poveri, una miccia per le prime proteste in Tunisia.

C'è poi il caso della Siria. I moti in Siria sono stati preceduti da quattro anni di siccità esacerbati da un errore, la modernizzazione di un'agricoltura che era prevalentemente di sussistenza, trasformata in agricoltura industrializzata. Si è investito sul cotone e quindi su monoculture redditizie ma non resilienti: quindi è arrivata la siccità, ma il cotone ha bisogno di molta acqua, e questo ha causato un grande spostamento dalle campagne alle città, con un inasprimento delle tensioni sociali».

Nel suo ultimo libro (Effetti farfalla: 5 scelte di felicità per salvare il Pianeta, Chiarelettere 2021) invita a cambiare prospettiva sulla sostenibilità. Che relazione c'è tra l'effetto farfalla e l'economia sostenibile? «I trattati internazionali non servono a niente se non spingono a comportarsi diversamente. Questo però in genere non succede, perché le persone pensano che quello che possono fare sia soltanto una goccia nel mare, oppure perché ci si chiede: perché dovrei farlo proprio io?

In realtà non siamo gocce nell'oceano ma viviamo in un sistema che moltiplica a dismisura l'effetto costruttivo, e lo amplifica. Qualsiasi comportamento sostenibile non dovrebbe più essere visto come un costo, un sacrificio, ma come un modo più semplice per vivere meglio. Occorre proprio cambiare punto di vista.

4 giugno 2021 Elisabetta Intini
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