Il 31 ottobre si è aperta a Glasgow, in Scozia, la 26^ Conferenza delle Parti (COP26). Sono diversi i temi scottanti dei quali discuteranno i 197 Paesi riuniti: dal sostegno (finanziario e tecnico) per uno sviluppo sostenibile ai Paesi più poveri, che attendono ancora di ricevere parte dei fondi a loro destinati per il contrasto al riscaldamento globale, alla questione centrale del funzionamento del mercato delle emissioni.
Che ruolo gioca la pandemia? A causa delle restrizioni imposte dall'emergenza sanitaria e dei costi di viaggio, i leader di diversi Paesi poveri (che sono in molti casi anche quelli più colpiti dai cambiamenti climatici) non saranno presenti fisicamente alla COP26: questo potrebbe tradursi in un mancato controllo nelle decisioni che verranno prese, e una prevalenza delle visioni delle Nazioni più ricche, che sono anche le principali responsabili dell'inquinamento a livello globale.
Cos'è il mercato delle emissioni? Il nodo centrale che le diverse nazioni dovranno sciogliere alla COP26 è quello riguardante i diversi mercati delle emissioni, e in particolare il mercato europeo (European Union Emission Trading Scheme, EU-ETS), finora quello meglio funzionante. Si tratta di un sistema lanciato nel 2005 dall'Unione Europea per cercare di incentivare i Paesi membri ad abbandonare l'uso di fonti fossili e passare a fonti di energia rinnovabili.
Come funziona? All'inizio di ogni nuovo ciclo dell'EU-ETS (ora sta finendo il terzo e deve iniziare il quarto, che durerà fino al 2030), la Commissione Europea fissa il tetto massimo di emissioni per gli stabilimenti produttivi (principalmente industrie e centrali elettriche), ponendo obiettivi più ambiziosi di volta in volta. Ogni Paese membro riceve una quantità di autorizzazioni (in inglese allowances), da utilizzare come fiches in un gioco da tavolo, che permettono sostanzialmente di inquinare senza conseguenze (economiche) ma entro un limite stabilito. Altre autorizzazioni vengono poi messe all'asta, e vendute al miglior offerente: il ricavato viene utilizzato per investire in energie rinnovabili.
Una volta che tutti i Paesi hanno le proprie fiches, il gioco ha inizio; quando una nazione finisce i propri "bonus d'inquinamento", ha due opzioni: continuare a inquinare e pagare poi le (salatissime) penali, oppure comprare altre fiches da chi è stato più virtuoso e ha inquinato meno. Questa seconda opzione è quella attuata più di frequente, ma pone diversi problemi.
C'è il trucco? Da un lato, spiega un articolo di The Conversation, i Paesi in via di sviluppo temono che gli scambi di autorizzazioni consentano alle nazioni più ricche di evitare di ridurre le emissioni; dall'altro, i Paesi industrializzati sostengono che gli Stati più poveri potrebbero conteggiare come proprie le autorizzazioni vendute e aggiungerle ai loro obiettivi interni, di fatto calcolandole due volte e "ingannando" il sistema.
Vi è poi la questione dei crediti accumulati: economie come Brasile e India potrebbero rimanere comodamente entro il tetto massimo di emissioni, sfruttando le autorizzazioni accumulate con il sistema stabilito dal protocollo di Kyoto nel 1997, ma inquinando più del dovuto e andando contro l'idea centrale dell'accordo di Parigi, che mirava a raggiungere obiettivi sempre più ambiziosi in materia di contenimento delle emissioni.
Chi stabilisce il prezzo delle autorizzazioni? Esiste poi il problema dell'estrema volatilità dei prezzi delle autorizzazioni: dopo la crisi del 2009 in Europa il prezzo per tonnellata di CO2 emessa era crollato a zero, di fatto annullando ogni beneficio del sistema. Un grande timore era che accadesse qualcosa di simile con la crisi sanitaria dovuta alla covid, ma per fortuna così non è stato: il prezzo, che prima dell'inizio della pandemia si attestava attorno ai 25 euro a tonnellata, si è poi stabilizzato a poco più di 20 euro.
Il prezzo di mercato delle quote di emissioni è un fattore cruciale che determina l'efficacia del sistema: se è troppo basso vanifica lo scopo stesso del meccanismo di scambio (rendere costoso inquinare), poiché per gli stabilimenti sarà più semplice comprare fiches che investire in energia pulita; se è alto, sarà al contrario un incentivo per gli operatori industriali a cercare altre fonti di energia, abbandonando i combustibili fossili. «Il prezzo ideale, quello necessario per arrivare alla neutralità del carbonio a metà secolo, sarebbe intorno ai 50 euro a tonnellata», spiega Massimo Tavoni (Politecnico di Milano).
E se istituissimo un mercato mondiale delle emissioni? L'EU-ETS riguarda solo i Paesi europei: tuttavia in varie parti del mondo (gli Stati Uniti furono i primi, con gli emendamenti al Clean Air Act del 1990) sono in vigore o si stanno sviluppando dei sistemi basati sul meccanismo del "cap-and-trade", che prevede la limitazione (cap) e la compravendita (trade) delle emissioni. Il problema, però, è che ognuno ha le proprie regole di gioco: in Europa, ad esempio, chi emette più del dovuto incorre in una multa di 100 euro per ogni tonnellata di CO2 in eccesso. Negli USA e in Canada, il prezzo da pagare per aver inquinato più del dovuto è pari al triplo o al quadruplo del costo di una allowance – il che, ai prezzi attuali, equivale a molto meno di 100 euro.
L'istituzione di una borsa internazionale del carbonio eviterebbe queste differenze, ma secondo alcuni è difficilmente attuabile: «Un collegamento tra i diversi mercati ci sarà, ma limitato», afferma Tavoni.
Ad alimentare lo scetticismo contribuisce l'esperienza fallita del Clean Development Mechanism, uno schema di scambio di crediti sulle emissioni tra i diversi Paesi del mondo, istituito durante il protocollo di Kyoto ma crollato nel 2012, e la paura di spezzare l'equilibrio del mercato europeo, un sistema finalmente funzionante che rischia di venire compromesso dall'immissione di nuovi crediti esterni. I leader del mondo riusciranno ad accantonare gli interessi del presente per proteggere il Pianeta del futuro? Per capirlo non ci resta che attendere la fine dei negoziati della COP26.