La quantità di plastica che finisce negli oceani è spaventosa: ogni anno l'umanità scarica in mare 8 milioni di tonnellate di plastica, facendo danni per 8 miliardi di dollari, creando gravissimi problemi agli ecosistemi marini e compromettendo l'intera catena alimentare - che naturalmente arriva fino a noi. Direttive nazionali e internazionali si stanno imponendo per limitare o bandire l'uso di alcune plastiche e per incoraggiare il riutilizzo, o quanto meno il corretto smaltimento, delle plastiche inevitabili.
Quello della plastica è in effetti un problema globale, ed è naturale che muova investimenti e ricerche. Una delle più recenti fa il punto sull'utilizzo di alcuni microrganismi capaci di ridurre e degradare la plastica in ambiente marino, perché si nutrono di alcuni dei suoi componenti.
Pranzo col carbonio. Breve o lungo che sia il suo viaggio, quando infine arriva in mare, se non diventa subito cibo per pesci, la plastica viene "attaccata" da diversi fattori che alterano le sue caratteristiche: l'azione abrasiva dell'acqua, i raggi ultravioletti, le escursioni termiche, i sali marini.
Potrebbero volerci anni o anche decenni, come ormai sappiamo, ma infine la struttura dei materiali viene compromessa e (col tempo) degradata in piccoli e piccolissimi frammenti.
«A quel punto un gran numero di organismi si è già stabilito sulla superficie esposta, che è diventato un substrato dove vivere e una fonte di carbonio per il loro sostentamento», spiega Evdokia Syranidou (Technical University of Crete, Grecia), che sugli "organismi mangia-plastica" ha pubblicato uno studio su Journal of Hazardous Materials.
In laboratorio, il team di Syranidou ha dato in pasto quantità definite di micro frammenti di polietilene (PE) e di polistirolo (PS) a differenti comunità di microrganismi: un gruppo composto da diverse specie presenti in mare, l'altro da organismi geneticamente modificati per aggredire meglio le plastiche.
Dopo i cinque mesi previsti per la durata dell'esperimento i residui sono stati ripesati: gli organismi avevano ridotto il PE del 7% e il PS dell'11%. Non senza sorpresa i ricercatori hanno però dovuto constatare che gli organismi più efficienti nel degradare e destrutturare la plastica non erano quelli modificati, ma un gruppo di "acclimatati" (i ricercatori hanno definito così gli organismi esposti alla plastica in simulazioni precedenti). In pratica si sono dimostrati migliori, dal nostro punto di vista, quelli naturali, non geneticamente modificati, che avevano già sviluppato una sorta di "gusto per la plastica". È presto per dire dove può portare questo particolare studio: non è proprio una novità, ma è comunque una strada che merita di essere esplorata.
La buona meccanica. Se i microrganismi sono un'idea per intervenire a valle del problema, c'è chi lavora per intervenire a monte - anzi no, in effetti è "da qualche parte nel mezzo" della lunga strada che porta la plastica da noi al mare. Un metodo è la posa di barriere fisiche lungo i corsi d'acqua: non i grandi fiumi (anche se ce ne sarebbe un gran bisogno), ma i canali grandi e piccoli, spesso in disuso e non controllati, ancor più spesso "a secco" per la gran parte dell'anno e utilizzati come discariche abusive di ogni tipo di spazzatura - che le piogge poi aiuteranno ad arrivare in mare. Ci sono barriere galleggianti, semplici, che probabilmente potrebbero essere utilizzate su larga scala con poca spesa (la spesa, per le amministrazioni, è poi quella per raccogliere e smaltire i rifiuti intercettati, altrimenti le barriere non servono a nulla).
Un altro metodo è quello sperimentato con successo nell'ambito del progetto LifeGate PlasticLess, promosso da Radio LifeGate col supporto di Whirlpool EMEA (la sede europea di Whirlpool): speciali cestini (chiamati Seabin, cestino marino) che, inseriti in acqua, catturano circa 1,5 chilogrammi di plastica al giorno. Il progetto è in funzione in 13 porti italiani.
Un chilo e mezzo di plastica al giorno può sembrare poco, ma i cestini marini sono al lavoro 24 ore su 24, 365 giorni l'anno (anche in questo caso, la spazzatura va poi prelevata e smaltita, è naturale). Il raccolto giornaliero corrisponde (in peso, non in volume) a 100 bottigliette: si tratta comunque di circa 500 kg di rifiuti l'anno, composti anche da microplastiche da 2 a 5 millimetri di diametro e microfibre da 0,3 millimetri (è quello che c'è, ma non vedete, nell'acqua di scarico della lavatrice). Materiali che, finendo sulle alghe, ingerite poi dai pesci, entrano direttamente nella catena alimentare, anche nostra.
I cestini si sono dimostrati efficaci: nei porti di Fano (PU), di Marina dei Cesari (PU) e di San Benedetto del Tronto (AP), quelli posati nel 2018 hanno contribuito alla rimozione di oltre 400 chili di detriti galleggianti (equivalenti al peso di 26.000 bottigliette di plastica da mezzo litro), oltre a cannucce, tappi di bottiglia, mozziconi di sigaretta, pezzi di polistirolo, incarti alimentari, confezioni di merendine) e persino frammenti di reti utilizzate per il commercio di mitili (le cozze).
Tutto bello. Ma se ci decidessimo a risolvere il problema veramente a monte, non sarebbe meglio?
[© focus.it 2019, Luigi Bignami e Raymond Zreick]