Ecologia

Chernobyl dopo l'uomo: oasi o inferno per la vita animale?

L'area attorno alla centrale di Chernobyl è un paradiso per la fauna selvatica o un cimitero radioattivo con effetti perenni sulla salute animale?

Le notizie su Chernobyl sono spesso accompagnate da foto di lupi, cavalli selvatici, volpi e bisonti che si aggirano indisturbati in uno scenario post apocalittico, finalmente libero dall'uomo. L'area del disastro è davvero una zona franca per gli animali, che si sono ripresi i loro spazi? Oppure resta una terra ancora profondamente contaminata, che continua ad avvelenare la fauna con le radiazioni? La questione è al centro di un acceso dibattito scientifico.

Due visioni contrapposte. Per alcuni scienziati la contaminazione radioattiva residua non rappresenta un pericolo significativo per la vita selvatica, che ha trovato il modo di prosperare nella zona di esclusione, un territorio nel raggio di 30 km dall'ex centrale interdetto all'accesso umano. Altri invece hanno documentato gli effetti nocivi delle radiazioni sulla salute dei singoli animali e sulla numerosità delle loro popolazioni, con danni di diversa entità a seconda dei livelli di contaminazione.

Chi ha ragione? In un certo senso, tutti. Come spiegato in un articolo su Knowable, il nocciolo della questione non è tanto chiedersi se le radiazioni residue abbiano un qualche effetto sulla fauna, ma piuttosto a quale dosaggio questi effetti diventino una minaccia alla sua sopravvivenza.

Esiste un punto di non ritorno, un limite oltre il quale i danni iniziano ad accumularsi? Come cambia questa soglia per le diverse specie? L'area attorno al reattore di Chernobyl, caratterizzata da diversi livelli di radiazioni, è il luogo ideale per far luce su questo tema, che non riguarda soltanto le zone interessate da disastri nucleari: in che modo l'esposizione cronica a radiazioni influenza la salute dei viventi?

Che cosa rimane. Secondo alcune stime, l'incidente al reattore numero 4 di Chernobyl del 26 aprile 1986 rilasciò diverse centinaia di volte più combustibile radioattivo della bomba atomica sganciata su Hiroshima nella Seconda guerra mondiale (qui la cronaca di come andò). Con il passare del tempo scomparvero i radionuclidi (le sostanze chimiche radioattive) più pericolosi, come lo iodio-131, il principale responsabile dell'aumento dei tumori alla tiroide negli anni successivi al disastro, e rimasero quelli a decadimento più lento come il cesio-137 e lo stronzio-90, assorbiti in modo non omogeneo dalla vegetazione e dal suolo attorno alla centrale.

Oggi nella Foresta Rossa, la distesa di pini nel raggio di 4 km dal complesso che in seguito all'esplosione cambiò colore e morì, rimane una radioattività residua di 0,4 millisievert all'ora, migliaia di volte più elevata dei tipici livelli di radiazione che gli esseri viventi riescono a tollerare senza conseguenze.

Un certo grado di esposizione a radiazioni è inevitabile anche nella vita di tutti i giorni. Questa scala mostra i livelli che si potrebbero incontrare con attività normali o durante incidenti nucleari. Ogni gradino della scala rappresenta un aumento dei livelli di radiazione di 10 volte.
Un certo grado di esposizione a radiazioni è inevitabile anche nella vita di tutti i giorni. Questa scala mostra i livelli che si potrebbero incontrare con attività normali o durante incidenti nucleari. Ogni gradino della scala rappresenta un aumento dei livelli di radiazione di 10 volte. © Knowable Magazine / Reporting by K. Zimmer

Effetti deleteri anche a basse dosi. È però molto difficile capire quali possano essere le conseguenze di tutto questo sulla salute degli animali, soprattutto se si tratta di fauna selvatica in un'area di così difficile accesso. I primi racconti da Chernobyl descrivevano un territorio in cui la vita animale era rifiorita in assenza dell'uomo. Nei primi anni 2000, però, i biologi Anders Møller dell'Università di Parigi-Saclay e Timothy Mousseau dell'Università della South Carolina dimostrarono che nelle aree più radioattive, certe specie di uccelli avevano cervelli più piccoli, meno spermatozoi e più mutazioni genetiche del normale, oltre a una popolazione per specie ridotta del 66%. Anche il numero di specie di uccelli risultava dimezzato.

Nelle stesse zone c'erano meno invertebrati nel suolo, meno insetti, meno mammiferi come lepri e volpi. Ai due scienziati la correlazione tra radiazioni e danni agli animali sembrava palese, persino a livelli di radioattività residua considerati innocui fino ad allora.

Se un effetto c'è, si vede poco. Queste conclusioni furono molto criticate: secondo altri scienziati Møller e Mousseau avevano sottostimato la quantità di radiazioni a cui gli animali erano stati esposti: la radioattività aveva forse ridotto le loro popolazioni, ma soltanto nelle aree in cui era presente in dosi più elevate a quelle riportate dai due ricercatori.

Studi successivi stabilirono che, anche se i radionuclidi rimasti recavano danno, questo non era sufficiente per influire sul numero complessivo di esemplari. La quantità di cinghiali, alci e caprioli in Bielorussia, vicino all'ex centrale, era analoga a quella degli stessi animali in aree naturali protette, forse perché gli effetti delle radiazioni erano controbilanciati da altri fattori, come la lontananza dell'uomo. Nel 2016, i tentativi di replicare i risultati di Møller e Mousseau sugli animali di Fukushima fallirono: a 5 anni dal disastro non si trovavano segni di danni genetici nei serpenti e nei cinghiali che avevano assorbito livelli di radiazioni simili a quelli studiati dai due scienziati.

eredità scomode. A complicare le cose ci sono alcuni fattori ambientali. Per esempio la Foresta Rossa è, sì, ancora radioattiva, ma è anche praticamente priva di vegetazione, un elemento che di certo non facilita l'abbondanza delle popolazioni animali. Incendi e alluvioni recenti possono alterare la distribuzione delle sostanze radioattive residue, nonché della fauna. E molto cambia da specie a specie: alcune, specialmente nelle aree meno contaminate, potrebbero aver addirittura guadagnato da una situazione che ha messo l'uomo fuori gioco.

Certi danni cellulari osservati negli animali di oggi potrebbero inoltre non essere il risultato diretto di radiazioni a cui sono esposti oggi, ma un danno ereditato dalle generazioni precedenti, esposte al disastro iniziale.

Un team di scienziati bielorussi ha catturato due arvicole rossastre (Myodes glareolus, topi di campagna) nella zona vicina alla centrale di Chernobyl e le hanno tenute in un laboratorio al riparo dalle radiazioni. Il midollo osseo dei cuccioli presentava lo stesso numero di mutazioni genetiche delle madri, nonostante non fossero stati esposti a radiazioni dirette.

Bassi livelli di radiazioni possono non causare mutazioni sul momento, ma provocare cambiamenti epigenetici capaci di influenzare l'attività cellulare e trasmettersi alle generazioni successive. Questo fatto potrebbe riconciliare gli studi di chi continua a osservare danni genetici con quelli di chi non trova conseguenze degne di nota. Inoltre gli animali si spostano, e non è detto che quelli che oggi popolano la zona di esclusione siano i discendenti dei superstiti al disastro.

Nuove forme di sopravvivenza. Alcune specie animali potrebbero infine sembrare più in salute di quanto non siano anche perché hanno imparato ad adattarsi alle radiazioni. Le raganelle europee (Hyla arborea) nella zona di Chernobyl sono più scure rispetto alle loro simili, forse - è stato ipotizzato - perché producono più melanina per proteggersi dalla tossicità delle radiazioni. Per lo stesso scopo le cellule delle arvicole rossastre a Chernobyl sembrano secernere più sostanze antiossidanti. Insomma, la questione rimane aperta. Intanto, la vita animale attorno a Chernobyl continua a prosperare, almeno in apparenza.

16 febbraio 2022 Elisabetta Intini
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