Nel Mediterraneo, il rumore subacqueo è una minaccia per tutte le specie ittiche e in particolare per i cetacei: l'estensione delle aree "inquinate" aumenta sempre di più e a un ritmo impressionante. Nel 2005 l'inquinamento acustico interessava 67.000 chilometri quadrati (il 3,8% del bacino del Mediterraneo): nel 2013 erano 675.000 chilometri quadrati, pari al 27% del Mare Nostrum. Un incremento del 907% in otto anni.
Lo certifica il rapporto finale di un progetto internazionale di ricerca commissionato nell'ambito dell'ACCOBAMS (l'Accordo per la conservazione dei cetacei nel Mediterraneo, nel Mar Nero e nelle contigue aree atlantiche), un'intesa del 1996 tra una decina di Paesi. Lo studio, presentato il 21 gennaio scorso, ha valutato quantità, tipologia e distribuzione delle principali sorgenti di rumore nel Mediterraneo nel periodo 2005-2015.
La ricerca disegna perciò la prima mappa acustica dell'habitat marino del Mediterraneo e vuole essere la base per misure di riduzione del rumore: nel loro lavoro, i ricercatori hanno sollecitato le istituzioni affinché venga istituito un registro dei dati e sottolineato la necessità urgente di predisporre misure di riduzione dell'inquinamento acustico a tutela del nostro mare. Per arrivare a questi obiettivi, sottolineano, serve una visione di insieme delle molteplici attività umane che producono rumore subacqueo.
Il baccano sott'acqua. In mare, il rumore è provocato dal traffico navale connesso all'attività portuale (turistica e militare), dalla pesca, dalla navigazione, dalle piattaforme per la ricerca e l'estrazione di gas naturale e idrocarburi. Lo studio - condotto da un pool di scienziati italiani, francesi, svizzeri e americani - ha riguardato l'area del Mediterraneo tra lo stretto di Gibilterra e quello dei Dardanelli (esclusi invece il Mar Nero e l'area Atlantica limitrofa, che pure sono dentro l'ACCOBAMS).
Sonar navali, esercitazioni militari, esplosioni per demolire strutture offshore, brillamento di ordigni bellici, airgun per prospezioni geosismiche, costruzione di opere offshore e sulla costa, traffico navale, impianti industriali offshore...
I dati sono relativi a 1.446 tra porti e porticcioli, 228 piattaforme petrolifere, 830 attività di esplorazione sismica, 7 milioni di posizioni di navi (nell'arco dell'intero periodo), alle informazioni pubbliche riguardanti le attività militari, e 52 progetti di impianti eolici in mare. I ricercatori hanno sottolineato che, nel periodo dello studio, in media erano 1.500 le navi commerciali contemporaneamente in navigazione nel Mediterraneo (senza contare le imbarcazioni da diporto e i pescherecci).
Il livello del rumore. L'inquinamento acustico rilevato nel Mediterraneo è nell'ordine dei 190-230 dB di picco e di 160-180 dB per i segnali tonali (continui). A fronte di ciò, "numerosi studi hanno individuato livelli di pressione acustica che inducono a reazioni comportamentali anomale (allontanamento, deviazione di rotta, cessazione o alterazione delle vocalizzazioni) già a partire da 120 dB, alla perdita di sensibilità uditiva temporanea intorno a 160 dB e alla perdita definitiva di sensibilità uditiva a livelli superiori a 180 dB" (fonte: Arpat Toscana, in Rivista Italiana di Acustica Vol. 39, 2015).
Il rapporto denuncia anche che diverse aree critiche, per inquinamento acustico, sono adiacenti o coincidenti con gli habitat dei cetacei, come il Canale di Sicilia, la parte superiore della Penisola Ellenica e il Santuario Pelagos, quell'area riservata alla protezione dei mammiferi marini compresa tra Costa Azzurra, Principato di Monaco, Corsica, Sardegna, Toscana settentrionale e Liguria. Il rischio e lo stress per gli animali marini è alto, in quanto le fonti di rumore sono numerose e diverse, e perciò con effetti cumulativi e sinergici. Sono a rischio anche le acque tra le isole Baleari e la Spagna: la minaccia è stata riconosciuta dal governo spagnolo e il Ministro dell'ambiente ha annunciato che quell'area verrà designata come "corridoio di migrazione protetto per balene e delfini", con conseguenti misure di gestione rigorose per le attività che producono rumore.
Questioni di scelta. Oltre all'impatto del traffico turistico e commerciale, sorprende l'inquinamento acustico prodotto dalla ricerca di nuovi giacimenti di petrolio e gas con il metodo airgun (arma ad aria compressa): una tecnica di prospezione che consiste in una sequenza di spari di aria compressa in profondità, che rimandano poi onde acustiche da cui si ricavano dati sulla composizione delle profondità marine. Gli spari - che continuano per settimane o mesi al ritmo di uno ogni 10-12 secondi - toccano i 260 decibel. Un livello intollerabile (anche per l'uomo) che a cetacei e pesci può provocare la perdita dell'udito, senso che usano per orientarsi, accoppiarsi e trovare cibo. Oltre alle preoccupazioni per lo scenario che descrive, il rapporto finirà dunque per alimentare altre polemiche sulla decisione (del dicembre 2015) del Governo italiano di rilasciare nuove autorizzazioni per le prospezioni airgun in diverse aree dei nostri mari, compreso quella al largo delle isole Tremiti.