Senza le foreste, la nostra sfida al riscaldamento globale sarebbe inaffrontabile in partenza. Ma affidare alle foreste soltanto ogni speranza di riduzione delle emissioni di CO2 non è solo poco realistico, ma anche controproducente: in primo luogo, perché gli sforzi di afforestazione (cioè di conversione in foreste di aree che prima non lo erano) rischiano di distogliere dalla necessità primaria di rinunciare ai combustibili fossili; e poi perché, come dimostrano due studi appena usciti, ricoprire di nuovi alberi grandi superfici di suolo potrebbe portare a risultati opposti rispetto alle buone intenzioni iniziali.
Una soluzione "facile"? Grazie alla fotosintesi, le foreste accumulano carbonio nelle foglie, nelle parti legnose, nelle radici e nel suolo, assorbendo quasi il 30% delle emissioni antropiche di anidride carbonica. Ecco perché molti Paesi hanno fatto degli sforzi di rigenerazione delle foreste l'elemento chiave del loro impegno contro i cambiamenti climatici. Nel primo dei due studi, pubblicato su Nature Sustainability, alcuni scienziati dell'Università della California a Santa Barbara e di Stanford hanno analizzato le caratteristiche delle piante usate nei progetti di afforestazione nonché il tipo di incentivi forniti per queste operazioni. In particolare è stato seguito il caso del Cile: nel Paese una legge ha coperto il 75% dei costi di piantagione di nuovi alberi dal 1974 al 2012, in quello che è stato considerato un maxi progetto di espansione delle aree forestali.
Spazio al nuovo (ma era meglio prima). Nonostante il decreto cileno non riguardasse le foreste già esistenti, ma soltanto le aree originariamente prive di alberi, gli incentivi hanno spinto alcuni coltivatori ad abbattere le foreste native, più ricche di biodiversità e più efficienti nel sequestro di carbonio, per far spazio alle nuove piantagioni. In molti casi, i progetti di afforestazione prevedono che si piantino monocolture di piante che producano frutta o altri prodotti utili, come la gomma. Così facendo, però, si rischia di erodere la diversità di specie e la ricchezza delle foreste originarie: «I sussidi per le foreste in Cile - scrivono i ricercatori - hanno probabilmente diminuito la biodiversità senza aumentare il carbonio totale catturato nella biomassa sopra il suolo». I progetti di riforestazione vanno dunque disegnati attentamente, per non correre il rischio di assorbire meno CO2 di quanto avvenisse in precedenza e al contempo sprecare soldi pubblici.
Dipende dal suolo. Il secondo studio ha esaminato più nel dettaglio la quantità di CO2 atmosferica assorbita dalle nuove foreste, un valore di solito considerato fisso nei modelli climatici, ma che - sospettavano gli autori del lavoro - potrebbe in realtà dipendere dalle condizioni del suolo locale.
Il team di ricercatori di USA e Cina ha analizzato 11.000 campioni di suolo estratti da alcune nuove foreste della Cina settentrionale: negli ultimi anni, questa regione è stata al centro di una massiccia opera di afforestazione sia per contrastare i cambiamenti climatici, sia per ridurre con l'aiuto della vegetazione la polvere del deserto dei Gobi.
Il team ha misurato la densità di carbonio presente nel terreno e si è accorto che, dove il suolo era già in origine ricco di carbonio, piantare nuovi alberi ha ridotto la densità di questa sostanza. Dove invece il terreno era inizialmente povero di carbonio, piantare nuove foreste ha arricchito la densità di questo elemento. È quindi possibile che le stime sulla capacità di sequestrare carbonio del suolo delle foreste elaborate finora siano state troppo generose. Anche questo studio è stato pubblicato su Nature Sustainability.
Non esiste un rimedio semplice. La lezione fornita dai due lavori, sottolineano gli scienziati, sta nella complessità: i progetti di afforestazione devono tenere conto di una serie di variabili, di equilibri ecosistemici e di dettagli tecnici. Non si può pensare che le stesse linee guida vadano bene per tutti, né che le foreste da sole risolvano la crisi climatica.