Chi teme l'arrivo della primavera perché soffre di allergie se ne sarà probabilmente già accorto: i cambiamenti climatici stanno alterando già ora la stagione dei pollini, che è destinata a divenire sempre più lunga e con produzioni sempre più massicce di materiale allergenico.
In base a uno studio pubblicato su Nature Communications, condotto negli Stati Uniti, se non ci decideremo a dare un taglio drastico alle emissioni di CO2, entro fine secolo registreremo un aumento del 200% nella quantità totale di pollini rilasciata dalle piante. Inoltre la stagione critica per questo tipo di allergie inizierà fino a 40 giorni prima in primavera e si prolungherà anche di 19 giorni in più rispetto ad ora a fine estate o in autunno.
Un approccio nuovo. Il lavoro, che è stato coordinato da Yingxiao Zhang e Allison L. Steiner, scienziate atmosferiche dell'Università del Michigan, ha il merito di aver studiato l'effetto dei cambiamenti climatici su una quindicina tra piante erbacee e alberi che liberano pollini particolarmente allergenici (come ontano, betulla, quercia, gelso, cedro, ginepro, ambrosia), e di aver distinto come questa trasformazione interesserà in modo diverso i vari Stati americani, a seconda della loro posizione geografica.
Per esempio, i pollini di quercia e di cipresso vedranno una crescita notevole soprattutto dove l'aumento delle temperature si sta facendo sentire maggiormente (Stati Uniti nord-orientali). Nella stessa porzione di territorio, le "stagioni del polline" delle diverse piante sono destinate sempre di più ad emergere in contemporanea: se una volta si iniziava con i pollini di quercia e solo in un secondo momento arrivava la betulla, in futuro le ondate di pollini di varie specie avverranno più spesso nelle stesse settimane.
Che cosa c'entra il global warming. Il polline è una polvere sottile che contiene il materiale genetico maschile e fecondante del fiore delle piante. Nei soggetti allergici, il contatto con questi granuli induce l'organismo a produrre anticorpi specifici e diversi a seconda del tipo di polline, le immunogluline E (IgE), che si legano a un certo tipo di cellule nel sistema respiratorio favorendo il rilascio di sostante irritanti per i tessuti e le mucose.
La produzione di polline è strettamente legata alla crescita della pianta. Le massicce quantità di CO2 in atmosfera incoraggiano la fotosintesi: le piante crescono di più e rilasciano più polline. Intanto, temperature più elevate allungano la finestra utile per la crescita delle piante, che hanno più tempo per liberare il polline e per riprodursi.
Previsioni più accurate. Negli Stati sud-orientali degli USA, come la Florida, la Georgia e la Carolina del Sud, sono previsti massicci aumenti di pollini di piante erbacee, mentre gli Stati del nord-ovest, sul Pacifico, sono destinati a incontrare il picco della stagione dei pollini un mese in anticipo in futuro. Le scienziate spiegano che è possibile stimare quantità e tipologia di alberi in una data area attraverso i satelliti. Conoscendo poi in quale modo la temperatura influenza il rilascio dei pollini si possono usare le comuni previsioni meteo su venti, piogge e umidità per capire quanto polline finirà nell'aria.
Insomma, se lo studio non rileva nulla di buono per gli allergici, un lato positivo però c'è: un modello così dettagliato, integrato nei metodi attuali di rilevazione, dovrebbe almeno migliorare, negli USA e altrove, le previsioni su pollini e allergie, finora ancora approssimative.