Tra i pericoli per la biodiversità di ogni specifico territorio sono oggi da considerare con particolare allarme le specie aliene diffuse dall’uomo nell'ambiente, di proposito (nel tentativo di esercitare un controllo su qualche attività, per esempio) o per motivi del tutto casuali. In molti casi finisce che queste specie prendono il posto di quelle locali, sostituendole nell’ecosistema, cacciandole e addirittura estinguendole.


Guerra aperta. Quando si decide di tentare di porre rimedio, le soluzioni sono radicali (e spesso anche oggetto di accesi dibattiti).
Un esempio di soluzione radicale è quella che sta per essere varata in Nuova Zelanda, dove il primo ministro, John Key, ha annunciato un piano da 20 milioni di dollari statunitensi per avviare l’azienda Predator Free New Zealand Ltd., che dovrebbe iniziare il progetto (gigantesco) di liberare l’arcipelago del sud Pacifico da ratti, opossum e donnole.
Queste specie, importate dagli europei, uccidono 25 milioni di uccelli l’anno, tra cui vi sono molte specie endemiche dell’arcipelago. Il progetto di “sterminio” degli estranei ha lo scopo di rendere l’intera nazione libera da questi predatori entro il 2050. Secondo il ministro della conservazione Maggie Barry l'obiettivo dovrebbe essere perseguito con "metodi classici", come il veleno, ma anche con nuove tecnologie ancora tutte da definire.

Pericoli subdoli. Il problema dei predatori alieni e, in generale, delle specie invasive, è presente però praticamente ovunque, e in particolare nelle piccole isole e nei territori più incontaminati e ricchi di biodiversità.
Uno degli esempi più famosi è quello di un boa importato (forse accidentalmente) nell’isola di Guam (Boiga irregularis), che ha estinto gran parte delle popolazioni di chiocciole e molte specie di uccelli della piccola isola nel Pacifico.
Lo stesso si può dire di ratti e topi che, trasportati dalle navi, hanno raggiunto isole molto lontane dalla terraferma, come quelle attorno al Polo Sud, dove sono una minaccia per le popolazioni di albatros e altri uccelli marini nidificanti.
In Italia. A conferma, se dovesse servire, che il problema non è limitato a terre esotiche o sperdute isole del Pacifico, c'è l'esempio della maggior parte dei fiumi italiani, che hanno perso moltissime specie che li abitavano anche a causa dell’invasione di specie aliene, come il siluro (Silurus glanis) importato probabilmente negli anni Cinquanta del secolo scorso o prima.
Il siluro è una delle più grandi minacce alla biodiversità delle acque dolci italiane e del bacino del Po in particolare. Un’analisi della fauna ittica (citata in un articolo di Gianluca Mancinelli su SILVAE, la rivista tecnico-scientifica del Corpo Forestale dello Stato) ha contato per esempio nel bacino del Po 45 specie di pesci autoctoni e ben 38 alloctoni (ossia non originari del luogo in cui vivono), tra i quali appunto il siluro.
Lotta all'invasione. Gli stati si sono mossi per contrastare il pericolo costituito dalle specie aliene, che causano danni per miliardi di euro, e hanno adottato varie misure: da un elenco delle specie da tenere d'occhio (Delivering Alien Invasive Species Inventories for Europe) a progetti di eradicazione simili a quello della Nuova Zelanda.
I biologi, che hanno fatto nascere una nuova disciplina chiamata “ecologia dell’invasione” (Invasion ecology), ritengono però che quando una specie invasiva si è stabilita in un territorio vasto è molto difficile liberarsene.


In più, in Italia e nei Paesi occidentali è forte l'opposizione degli animalisti, che non ritengono corretto uccidere o avvelenare animali come la nutria (Myocastor coypus) o lo scoiattolo grigio (Sciurus carolinensis), entrambi originari delle Americhe, anche se fanno grossi danni all’ecosistema.
Un progetto di successo. La soluzione neozelandese per liberare gli ecosistemi di tutta la nazione dalle specie invasive è, secondo i biologi, complessa e costosa. È in effetti più facile attuare politiche di questo genere in piccole aree circoscritte, come isole o parchi nazionali.
È quello che è accaduto, con successo, sull’isola di Montecristo, nel Parco Nazionale dell’arcipelago toscano. Questo fazzoletto di terra era un’importante zona di nidificazione di un uccello marino, la berta minore (Puffinus yelkouan). I ratti, stabilitisi sull’isola da molti anni, hanno a lungo impedito l’involo dei giovani uccelli, di cui si nutrivano.
Il progetto del Parco nazionale, durato 50 mesi, ha superato numerosi ostacoli posti da animalisti e da alcune associazioni anti-parco, che accusavano i biologi della struttura di voler avvelenare l’intera isola.
Alla fine, però, l’assenza di ratti ha portato all’involo di oltre 900 berte minori l’anno...