Ecologia

Alberi e fiumi: intervista a Giorgio Vacchiano

Ottobre 2018: violente condizioni meteo mettono in ginocchio diverse regioni d'Italia, si contano vittime e danni, i telegiornali passano immagini che sembrano uscite da un film apocalittico - Sulla distruzione di milioni di alberi in Trentino i problemi del "dopo" e qualche idea per mitigare gli effetti di nuovi, futuri eventi simili.

Giorgio Vacchiano, Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari

Qual è il danno alle migliaia di alberi abbattuti dagli eventi catastrofici dell'ottobre 2018?
In alcuni casi sono stati schiantati tratti continui di qualche decina o qualche centinaio di ettari, con danni molto intensi (80-95% delle piante danneggiate), e zone più piccole o con danni più modesti (50% di piante danneggiate). Il danno, a quanto ho visto, è strettamente dipendente dalla forma del terreno: i versanti più esposti al vento che si incanalava nelle valli, e le creste, più esposte alle turbolenze, sono stati danneggiati, mentre tratti anche molto vicini appaiono intatti. Da questo punto di vista c'è qualche similitudine con il downburst, un altro fenomeno meteorologico: in questo caso si tratta di una colonna d'aria fredda che, in occasione di temporali, può compiere una rapida discesa e impattare al suolo più o meno perpendicolarmente, danneggiando totalmente il punto colpito e lasciando intatti quelli circostanti.

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GLOSSARIO
rinnovazione naturale: quando un bosco o una pianta si rigenera seguendo meccanismi biologici spontanei o indotti dall'uomo
coetanei: tutte le piante hanno la stessa età
disetanei: in una superficie relativamente limitata convivono piante di diverse età
puri (o monospecifici): costituiti da una sola specie arborea
misti (o polispecifici): boschi in cui si mescolano più specie arboree
struttura monoplana (monostratificati): tutti gli alberi dispongono le chiome su un unico livello, circa alla stessa altezza
struttura irregolare (pluristratificati): le chiome occupano in modo irregolare lo spazio aereo a diverse altezze dal suolo

Il territorio è totalmente sconvolto?
Nessuna delle foreste colpite può definirsi "perduta"; ci sono, è vero, danni localizzati anche molto intensi, ma anche ampi tratti ancora intatti, per esempio nelle foreste del Latemar, Paneveggio, Tarvisio e Asiago, per citare i luoghi più noti. La velocità della ripresa dipenderà dall'estensione del danno, dalla vicinanza delle piante sopravvissute e dall'eventuale presenza di giovani piantine.

I boschi abbattuti erano naturali o "coltivazioni"?
Se per "coltivazioni" si intende boschi piantati artificialmente, la situazione è molto varia: il vento è stato tale da abbattere boschi di molti tipi e specie differenti. Tra questi, i boschi di abete rosso piantati nell'altopiano di Asiago alla fine della Prima guerra mondiale, ma anche boschi semi-naturali - dove la riproduzione si basa sui semi sparsi dalle piante - di abete rosso, abete bianco e faggio, come quelli del Cadore; l'evento ha interessato anche boschi "cedui", usati per la legna da ardere ma anch'essi di origine naturale, di faggio (in Piemonte) e carpino nero (in Carnia, nel Friuli).

Boschi costituiti da specie diverse avrebbero resistito meglio?
La struttura e la composizione del bosco possono influenzare la resistenza a eventi più "ordinari" di quello dell'ottobre del 2018, con venti al di sotto di 150 km/h. In questi casi, boschi disetanei - ossia con alberi di età diverse - sono più resistenti di quelli coetanei, perché evitano che si formino turbolenze negli spazi tra il suolo e le chiome, dal momento che questo spazio è "riempito" da alberi di tutte le età. I boschi disetanei composti da molte varietà possono offrire anche una migliore resilienza, cioè la capacità di ripresa dopo un disastro, perché possono contare sulle giovani piantine, che in genere non vengono sradicate o abbattute, e sulle strategie di pronta rinnovazione di alcune specie di latifoglie, che sono in grado di cacciare nuovi rami dalle ceppaie danneggiate.

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Quel che resta del bosco: le cause dell'ecatombe di alberi in Italia, nell'ottobre del 2018, e ciò che si dovrebbe fare per mitigare gli effetti di eventi estremi come il ciclone Vaia. Su Focus 317. © Focus, Mondadori Scienza

Come siamo arrivati alla situazione odierna?
In alcune delle aree danneggiate la foresta monostratificata è stata una scelta gestionale lasciataci in eredità 150-200 anni fa, difficile contrastare anche volendo - specialmente là dove l'abbondanza di cervi e caprioli, in grande aumento dagli anni '60, fa sì che le latifoglie e le specie diverse, come l'abete bianco, vengano invariabilmente brucate da giovani e non abbiano possibilità di insediarsi.

Il vento come fenomeno meteorologico che impatta così pesantemente sui boschi è così raro e catastrofico oppure accade con una certa frequenza?
In media, due tempeste extratropicali colpiscono in autunno-inverno l'Europa ogni anno; tuttavia, prendendo in esame una località specifica, si tratta di eventi che si verificano ogni 50 anni o più, in genere concentrati nell'Europa centro-settentrionale: raramente hanno interessato il sud delle Alpi. L'ultima tempesta di intensità paragonabile a questa, nei nostri territori, è del novembre 1966: tutti ricordano l'alluvione di Firenze e quelle di Verona e Venezia, ma in quell'occasione ci furono anche estesi danni agli stessi boschi colpiti nell'ottobre del 2018.

Gli alberi morti al suolo sono indispensabili per la ricrescita della foresta oppure, al contrario, sono dannosi perché daranno rifugio a coleotteri parassiti che potrebbero diffondersi alle piante sane?
La questione è parecchio complessa. Sarà forse impossibile asportare tutto il materiale danneggiato, e del resto potrebbe anche non essere sempre la scelta migliore. In ogni caso, occorre studiare la cartografia dettagliata dell'estensione dei danni per individuare le aree dove è prioritario sgomberare il materiale, per ragioni di sicurezza o di stabilità idrogeologica, per esempio per evitare che il materiale venga trasportato negli alvei dei torrenti, aumentando la capacità di danno di eventuali piene. Rimuovere parte del legno atterrato servirà anche a ridurre il rischio di pullulazioni da parte degli Scolitidi, insetti mangiatori di legno le cui larve si sviluppano nel legname morto.

La "pulizia del bosco" è una pratica indispensabile?
Riguardo ai boschi, la "pulizia" è quasi un ricordo del passato, quando ogni pezzo di legno o chilo di lettiera aveva valore per scaldarsi, riempire materassi, nutrire gli animali. Era un periodo in cui i boschi erano intensamente utilizzati dalle popolazioni che ancora abitavano intensamente la montagna: periodi in cui la copertura forestale ha raggiunto il suo minimo storico in Italia, il 12% a inizio '900. Oggi le montagne si sono spopolate e i boschi non sono "puliti".

Non è però questione di pulizia, ma di gestione: abbiamo ancora bisogno di legno e, anzi, ne avremo bisogno sempre di più, per sostituire plastica, cemento e petrolio.

Grazie alla selvicoltura possiamo prelevarlo dalle foreste in modo sostenibile, cioè assicurandoci che la foresta rimanga, si sviluppi, e ospiti biodiversità. Per le foreste che svolgono un ruolo prioritario di protezione idrogeologica, ad esempio impedendo il rotolamento di massi o la caduta di valanghe su strutture e infrastrutture sottostanti, si possono mettere in atto tecniche selvicolturali capaci di portare al potenziamento di queste funzioni.

Non ci sono porzioni di foreste da salvaguardare?
Sì, ci sono aree dove lasciamo la foresta svilupparsi senza interferenze, se non ci sono rischi per la popolazione: sono le riserve integrali, indispensabili per assistere e imparare dalle dinamiche naturali.

21 febbraio 2019 Marco Ferrari
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