Era il 2016 quando David Gruber, ricercatore dell’American Museum of Natural History, scoprì e descrisse due nuove specie di squali simili al gattuccio. Scyliorhinus retifer e Cephaloscyllium ventriosum, questi i loro nomi latini, attirarono da subito l’attenzione per un dettaglio: i loro superpoteri.
Entrambe le specie, infatti, comunicano tramite biofluorescenza, un’emissione di luce verde invisibile all’occhio umano e che serve loro per non perdersi di vista nel buio degli abissi marini dove vivono. Gruber e il suo team hanno speso gli ultimi tre anni a studiare il fenomeno, per scoprirne le origini, il funzionamento e gli scopi. E quest’estate finalmente è arrivato l’annuncio, in una ricerca pubblicata su iScience: Gruber ha scoperto non solo come fanno gli squali a brillare, ma anche che le molecole responsabili del fenomeno, che sono di una categoria finora sconosciuta, hanno una funzione antibatterica.
Lanterne verdi. I due squali in questione vivono sui fondali: a quelle profondità l’unica luce che arriva è nelle frequenze del blu. Ed è proprio questa luce che viene prima assorbita dai pigmenti presenti nella pelle degli animali, poi riemessa sotto forma di luce verde. Il fenomeno si chiama biofluorescenza (distinta dalla bioluminescenza, che prevede che la produzione di luce sia “interna”), e l’esempio più famoso è quello della “green fluorescent protein” di alcune alghe che nel 2008 fece vincere il Nobel a Roger Y. Tsien, Osamu Shimomura e Martin Chalfie. Gli squali di Gruber, però, non usano la GFP, ma dei minuscoli metaboliti – molecole intermedie che si creano durante un processo metabolico – mai osservati prima in natura, che si illuminano di verde (un colore altrimenti assente dalle profondità marine, e dunque molto evidente) quando vengono colpiti da luce blu.
Potere curativo. Il dettaglio che più ha stupito il team, però, è un altro: le molecole usate dagli squali per brillare hanno anche funzioni antibiotiche. In elevate concentrazioni, infatti, sono in grado di uccidere (almeno) due batteri patogeni, uno stafilococco e un vibrione. Impossibile per ora dire se la scoperta possa avere applicazioni anche sull’essere umano, quel che resta è lo stupore di avere identificato un nuovo meccanismo di biofluorescenza finora sconosciuto e la speranza che questo sia solo l’inizio.