Le popolazioni globali di animali selvatici - mammiferi, uccelli, anfibi e pesci - sono crollate di oltre due terzi in meno di 50 anni a causa dell'eccessivo sfruttamento del Pianeta da parte dell'uomo. Èciò che emerge dal Living Planet Report 2020, pubblicato dal WWF in collaborazione con la Zoological Society di Londra. Stando allo studio, le attività umane hanno gravemente degradato tre quarti delle terre emerse e il 40 per cento degli oceani, e questa rapida distruzione della natura potrebbe avere conseguenze incalcolabili sulla nostra salute e sui nostri mezzi di sussistenza.
Secondo il Living Planet Index, che misura lo stato di salute della biodiversità globale dai trend demografici di quasi 5.000 specie di vertebrati, l'aumento della deforestazione e l'espansione agricola sono stati i fattori chiave che hanno causato un calo medio del 68 per cento delle popolazioni di vertebrati tra il 1970 e il 2016. «È una "diminuzione accelerata"», afferma Marco Lambertini, direttore generale di WWF International, «che monitoriamo da 30 anni, e continua ad andare nella direzione sbagliata. Nel 2016 abbiamo documentato un calo del 60 per cento della biodiversità, ora siamo arrivati a un calo del 70 per cento. Tutto questo in un batter d'occhio rispetto ai milioni di anni che molte specie hanno vissuto sul pianeta.» E, ciliegina sulla torta, la continua perdita di habitat naturale - si legge nel rapporto - aumenta il rischio di future pandemie, poiché si moltiplicano le occasioni di incontro tra esseri umani e animali selvatici portatori di patogeni del tutto sconosciuti (come il coronavirus SARS-CoV-2).
Perdite incolmabili. Mentre fino al 1970 l'impronta ecologica dell'umanità era inferiore alla capacità della Terra di rigenerare le risorse, ora, a causa della crescita economica senza precedenti degli ultimi 50 anni, sostenuta da un'esplosione nel consumo globale di risorse naturali, è stato calcolato che ogni anno utilizziamo una volta e mezza le capacità del Pianeta. Sono molte le cause legate alla perdita di animali selvatici, a partire dall'inquinamento e dall'intrusione di specie invasive (importate più o meno inconsapevolmente o migrate a causa dei cambiamenti climatici), tuttavia il più importante fattore di perdita è il cambio d'uso del suolo: in molti Paesi del mondo, spesso i più ricchi in biodiversità, è diventata norma per le industrie agricole convertire foreste e praterie in fattorie. Ciò comporta un tributo immenso per le specie selvatiche, che perdono i loro ambienti naturali. Come se non bastasse, la conseguenza di questa espansione dell'agricoltura è che i tre quarti dell'acqua dolce a disposizione dell'uomo è impegnata per la produzione di cibo - in buona parte neppure destinato direttamente al consumo umano ma riservato al bestiame d'allevamento.
E il quadro è altrettanto disastroso negli oceani, dove gli stock ittici sono rastrellati oltre ogni limite.
Al report del WWF si affianca uno studio, condotto da ricercatori di oltre 40 tra ONG e istituzioni accademiche e pubblicato su Nature, che delinea gli elementi di una strategia integrata per tentare di arrestare e forse anche invertire la corsa alla perdita di biodiversità. Tra le altre cose, la ricerca suggerisce la necessità di ridurre lo spreco alimentare e di favorire diete più rispettose dell'ambiente. Solo così, affermano i ricercatori, si potrebbe cambiare in meglio la curva del degrado: insieme a sforzi di conservazione radicali, queste misure contribuirebbero in modo importante al controllo del problema. Ma, come sottolinea David Leclère, primo firmatario dello studio, «dobbiamo agire ora! I tassi di recupero della biodiversità sono in genere molto più lenti di quelli della recente perdita di biodiversità. Ciò implica che qualsiasi ritardo nell'azione porterà a ulteriori perdite di biodiversità che potrebbero richiedere decenni per essere recuperate».