Più il pianeta si riscalda più gli animali sono costretti ad abbandonare le latitudini tropicali per dirigersi verso nord, o verso sud - comunque in direzione dei Poli. E più gli animali si spostano verso quelle latitutini, più si ritrovano in ambienti poco familiari, dove le loro principali fonti di cibo sono scarse o assenti.
Secondo uno studio della University of Aberdeen, pubblicato su Nature Ecology & Evolution, questa migrazione climatica forzata risulta poi in un drastico cambiamento nella dieta di queste specie, che si vedono costrette a reinventare le proprie abitudini alimentari per sopravvivere. Lo studio, dedicato nello specifico ai lepidotteri (farfalle e falene), sostiene che questa rivoluzione alimentare presenterà il conto anche a noi umani, e che dovremmo cominciare ad agire per prevenire possibili disastri.
Una dieta varia ed equilibrata. Lo studio fornisce una risposta a una domanda che l'ecologia si pone da tempo. Sappiamo infatti da decenni che c'è un legame tra latitudine e varietà della dieta, e che a latitudini maggiori gli animali consumano più cibi diversi rispetto alle loro controparti tropicali. Finora però, secondo l'autore dello studio, Lesley Lancaster, non era chiaro il perché; per cercare una risposta ha studiato le differenze nella dieta di centinaia di migliaia di specie di farfalle e falene, e ha notato che sono soprattutto le popolazioni più recenti ad aver adottato una dieta più ampia.
Secondo Lancaster si tratta di insetti che si sono spostati verso latitudini maggiori per sfuggire al caldo estremo, e si sono dovuti adattare alla situazione: «Molti di noi hanno provato l'esperienza di trasferirsi in una nuova città e cominciare a provare nuovi tipi di cibo. Perché non dovrebbe valere anche per gli animali?».
Che cosa c'entriamo noi? L'esodo di massa verso climi più freschi non è solo un brutto segnale riguardo allo stato di salute del nostro pianeta: potrebbe anche essere il preludio a grossi problemi per l'agricoltura. Nulla garantisce infatti che queste nuove specie non si innamorino di qualche pianta fondamentale per la nostra filiera alimentare, e diventino un problema per i raccolti, oltre che un potenziale vettore di nuove malattie. La speranza di Lancaster, quindi, è che il suo studio convinca le autorità locali di tutte le zone a rischio a studiare il modo per prevenire il problema piuttosto che doversi poi trovare a curarlo.