Vittima di un branco di cani randagi, che lo hanno sbranato: secondo una prima ricostruzione fornita dai carabinieri, Vito Guastella, 50 anni, è stato accerchiato ed aggredito, mentre stava lavorando al rimorchio del proprio camion, nel piazzale della ditta dove lavorava, a Biscottino, in provincia di Livorno.
È una notizia di cronaca di questi giorni (28 febbraio 2012), ma non è una novità.
«Il fenomeno del randagismo», spiega Giorgio Morelli, primo dirigente del comando di Frosinone del Corpo Forestale dello Stato, «è divenuto rilevante negli ultimi 40 anni, da quando cioè, con l'abbandono della montagna, si sono liberati territori.»
Oggi gran parte delle colture agricole appenniniche è abbandonata, ed è in queste zone che si concentrano i randagi, in particolare sull'Appenino centro-meridionale, zone dove la selvaggina si è moltiplicata. La Legge però impedisce l'abbattimento dei cani vaganti, a differenza di quanto avveniva negli Anni '70, quando venivano abbattuti circa 100 mila cani vaganti ogni anno.
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I cosiddetti vaganti, perciò, si moltiplicano e, generazione dopo generazione, diventano sempre pù selvatici. Una volta bastava questo: non si faceva distinzione ed erano tutti definiti "randagi". Oggi invece li consideriamo di diversi tipi, con caratteristiche diverse, classificati in base al comportamento in natura e nei rapporti con l'uomo.
Nelle prossime pagine vediamo da dove derivano le principali distinzioni e com'è meglio comportarsi nell'eventualità di incontrare un randagio o un cane inselvatichito.
I cani inselvatichiti sono quelli di seconda o terza generazione, perciò figli o nipoti di cani abbandonati. Hanno perso il contatto con l'uomo, da cui non hanno più alcuna dipendenza, né alimentare né affettiva, e sono difficili da osservare perché evitano il contatto.
Sono l'evoluzione naturale dei cani abbandonati. Di questi ulìtimi, la maggior parte è destinata alla morte: al processo di "selezione naturale" sopravvivono in genere solo quelli di grossa taglia, in grado di cacciare e riprodursi.
Come i lupi, sono notturni e formano piccoli branchi; si comportano come predatori selvatici, si cibano delle stesse prede cacciate dai lupi (nel Parco del Gran Sasso sono per lo più cinghiali) e perciò con i lupi possono entrare in competizione. Non temono l'uomo, con cui non sono mai entrati in contatto, e possono essere aggressivi.
Cane e lupo appartengono alla stessa specie (Canis lupus) e possono perciò accoppiarsi e dare vita a prole fertile. In questo caso si parla di cani ibridi e, dal punto di vista della conservazione del lupo, rappresentano un fenomeno gravissimo.
Perché animali che a prima vista sembrano lupi, per la forma del cranio, il muso affilato, gli occhi a mandorla, le strisce scure sulle zampe anteriori, all'esame del Dna possono rivelare geni da cane.
Anche se possono spaventare per il loro aspetto da lupi, possono essere docili come cani. O anche viceversa: somigliare a un cane ma essere selvatici come un lupo.
I randagi urbani sono cani che si vedono nelle nostre città.
E vivendo in contesti in cui spesso entrano in contatto con l'uomo, da lui cercano cibo e talvolta anche compagnia; non hanno tuttavia un padrone né un riparo. Vivono ai margini delle attività umane: mangiano quando qualcuno dà loro cibo o si arrangiano, cercando fra discariche e cassonetti.
I cani pastore e i cani da caccia, persi o abbandonati, sono quelli che si adattano meglio alla vita selvatica cittadina. Di solito comunque, indipendentemente dalla razza, riescono a sopravvivere soprattutto quelli di taglia grande.
A differenza degli altri, i cosiddetti cani padronali hanno un padrone e la certezza di trovare ogni notte un rifugio e una ciotola piena; vivono nei cortili aperti di fattorie o case isolate e per parte della giornata sono liberi di vagare nei territori circostanti.
Sono quelli che creano più problemi alla fauna selvatica. Anche solo per gioco, rincorrono cervi, caprioli, cinghiali, senza preoccuparsi dell'esito della caccia: sanno che a casa possono comunque recuperare le energie "sprecate".
Al contrario, un cane inselvatichito (o un lupo) valuta quando iniziare una caccia, perché se il tentativo di predazione fallisce non ha nessun reintegro delle energie disperse.
Un gruppo a sé sono i cani da lavoro, da guardiania: in qualche decennio il mondo pastorale ha subìto profonde trasformazioni, diventando un'attività marginale, e le conseguenze si sono riflesse anche sul modo in cui sono gestiti i cani.
I pastori di oggi, spesso macedoni e albanesi, abbandonati in montagna, non ricevono nemmeno cibo con continuità; anche i cani, di conseguenza, sono malnutriti e poco efficienti. Si cerca così di sopperire alla qualità con la quantità: un gregge che potrebbe essere difeso da tre buoni cani pastore, viene sorvegliato magari anche da una quindicina di cani, tutti però inadatti e affamati e che possono perciò trasformarsi in predatori di cinghiali o delle pecore dello stazzo vicino.
Sono in effetti animali pericolosi per gli escursionisti a piedi, in bicicletta o a cavallo. Possono essere aggressivi, ancor più se sono in gruppo o se la persona che incontrano si mostra timorosa.
«Se si incontrano dei randagi non bisogna fuggire, perché sono più veloci», suggerisce Giorgio Morelli. «Meglio mantenere la calma e... avere a portata di mano un bastone o una racchetta da trekking. Occorre mostrarsi sicuri, con un atteggiamento aggressivo e dominante e allontanarsi lentamente, perché specialmente i cani pastore hanno un territorio da difendere se viene "invaso".
Se si esce da questi confini ideali, possono però desistere».
Come combattere il randagismo? «L'ideale sarebbe eliminare il fenomeno dell'abbandono, ma ci vorrà tempo», sostiene Morelli. Nel frattempo si fanno campagne di sterilizzazione, si cerca di diffondere la coscienza di che cosa significa avere un cane e si cerca di promuovere l'adozione dai canili, perché le strutture esistenti non sono sufficienti a ospitare tutti gli abbandonati.