Il terremoto di magnitudo 7.8 che nel novembre 2016 ha colpito la Nuova Zelanda, sollevando di alcuni metri il fondale marino e, in diversi punti della terraferma anche il manto stradale, sta sgretolando molte delle certezze dei sismologi.
Uno studio del GNS Science, istituzione scientifica neozelandese, pubblicato questa settimana su Science, rileva che il sisma farebbe crollare un assunto caro ai geologi, e cioè che le faglie singole (o i segmenti isolati di lunghe faglie), si rompano in maniera indipendente l'una dall'altra.
Non immuni. Le faglie sono linee di frattura delle masse rocciose della crosta terrestre, lungo le quali si accumula l'energia che provoca poi i terremoti. Per decenni si è ritenuto che una distanza di 5 o più km tra una faglia e l'altra impedisse alla frattura, e quindi al sisma, di propagarsi. Ma il terremoto di Kaikoura (così come viene chiamato) ha coinvolto una dozzina di faglie, alcune delle quali distanti anche 15-20 km e apparentemente non connesse.
Rete complessa. Poiché la magnitudo di un terremoto è direttamente legata alla lunghezza della faglia che lo genera, quello in Nuova Zelanda è stato così intenso anche in virtù di questa complessa ramificazione di fratture, molte delle quali finora sconosciute.
Le conseguenze. La possibilità di questi "salti" tra una frattura e l'altra - senza evidenti connessioni fisiche tra una linea di rottura e l'altra - rende più alte le probabilità di eventi sismici particolarmente distruttivi: in base a queste considerazioni la probabilità di un terremoto di magnitudo 8 in California nei prossimi 30 anni salirebbe dal 4,7 al 7%.