Scienze

La democrazia è matematicamente impossibile

Una serie di paradossi aritmetici dimostra come, in molti casi, il risultato delle elezioni non rispecchia le preferenze degli elettori. Non solo: negli Stati Uniti, patria della democrazia e...

Con il governo, si sa, non vai mai d’accordo nessuno. Ma com’è possibile, visto che dovrebbe essere uscito vincitore da un’elezione libera e democratica? In realtà, se si osservano con attenzione i numeri, si scopre che la maggior parte dei cittadini potrebbe non aver votato per il candidato che è stato poi effettivamente eletto. Non c’è da stupirsi: è uno dei paradossi matematici dei sistemi elettorali di tutto il mondo messi in luce da Ian Stewart in un recente articolo pubblicato sulla rivista New Scientist. "Garantire elezioni libere" afferma l’autore, "spetta alla legge, ma assicurare che siano eque e algebricamente corrette è compito dei matematici, che da sempre cercano di mettere a punto meccanismi che combinino le esigenze aritmetiche con quelle politiche, per esempio garantire al governo una certa stabilità e la possibilità di governare". E dopo secoli di studio siamo ancora molto lontani dalla perfezione.
"E comunque è indispensabile definire il concetto di democrazia" spiega a Focus.it Vincenzo Galasso, docente di Political Economics all’Università Bocconi di Milano ed esperto di sistemi elettorali. "Democrazia è un parlamento che rappresenta nella giusta proporzione tutti i cittadini, o un'unica squadra di governo eletta dalla maggioranza?"

Il sistema maggioritario è il più semplice e antico: assegna la vittoria al candidato che raggiunge il più alto numero di preferenze. Adottato in tutto il mondo anglosassone (USA, Regno Unito, Canada e India) a livello teorico funziona abbastanza bene, ma richiede un basso astensionismo e un massimo di due candidati. Se sono tre o più, il sistema perde l’equità: può infatti accadere che il pretendente A ottenga il 40% dei voti, B il 25 e C il 35%. A verrà eletto, pur senza il consenso del 60% della popolazione.
Anche la divisione del territorio in collegi elettorali, ciascuno dei quali mette in palio un seggio non è esente da rischi: se un candidato è in leggero vantaggio nella maggioranza dei collegi ma molto indietro nei rimanenti, può vincere anche senza totalizzare il maggior numero di preferenze assolute: grazie a questa anomalia nel 2000 George W. Bush ha sconfitto Al Gore alla presidenza degli USA. Eppure Gore aveva ottenuto circa 500.000 voti in più rispetto all’avversario.

IL PARADOSSO DEL LATTE

Supponiamo che 15 persone siano chiamate a mettere in ordine di preferenza latte (L), birra (B) e vino (V). Sei votano L-V-B; cinque B-V-L; quattro V-B-L. In un sistema in cui conta solo la prima preferenza il latte vince con il 40% delle preferenze, seguito dalla birra e infine dal vino. Ma concludere che gli elettori preferiscono il latte è un errore: in nove preferiscono la birra al latte e nove preferiscono il vino al latte. Contemporaneamente dieci persone preferiscono il vino alla birra. Sommando le preferenze reali si ha una classifica diversa: V-B-L, esattamente il contrario di ciò che è uscito dalle "elezioni".

Chirac

Le Pen

E se vincono tutti?
Altri sistemi di voto prevedono che l’elettore non scelga un unico candidato, ma esprima un ordine di preferenza tra tutti i nomi presenti sulla scheda: è l’instant run of, adottato in Australia. Qualora nessun candidato abbia raggiunto la maggioranza assoluta di prime preferenze, il candidato meno votato viene eliminato e le sue schede vengono ripartite fra i rimanenti candidati seguendo le seconde preferenze in esse riportate. Il meccanismo continua così finché nessun candidato residuo abbia raggiunto la prescritta maggioranza assoluta. Nonostante questo sistema sia molto più equo dei sistemi a maggioranza semplice, non è esente da problemi. Il più importante lo ha individuato nel 1785 il matematico francese de Condorcet: cosa succede se tre candidati A, B, C, ottengono da tre elettori le preferenze A-B-C, B-C-A e C-A-B? Ciascuno dei tre canditati ha ricevuto un primo, un secondo e un terzo posto e sono quindi tutti alla pari.

Alla fine dell’ 800 i grandi movimenti socialisti europei chiesero a gran voce un sistema elettorale che permettesse di eleggere parlamenti realmente rappresentativi della situazione politica del paese. Nacquero così i sistemi proporzionali. Ogni partito riceve un numero di seggi direttamente proporzionale al numero di voti raccolti alle urne: chi riceve il 30% dei voti si aggiudica il 30% dei seggi e così via. Questo metodo è perfettamente efficiente dal punto di vista matematico ma solo se le elezioni si svolgono in un unico collegio grande quanto l’intera nazione, come accade in Israele. " E’ probabilmente l’unico caso di sistema elettorale algebricamente perfetto" spiega Vincenzo Galasso, "ma ha numerose controindicazioni dal punto di vista della stabilità perché frammenta moltissimo gli organi di governo, favorisce la nascita di coalizioni e quindi i ribaltoni. Nel decennio 1980-1989 l’Italia, in cui vigeva il proporzionale, ha visto la successione di ben 11 governi". Questa soluzione inoltre allenta i legami tra forze politiche e popolazione, perché non esiste più il concetto di "candidato locale".
Nella maggior parte degli Stati dove è in uso il proporzionale la nazione viene divisa in collegi elettorali che solitamente coincidono con le regioni: a ogni regione spetta un numero di seggi che dipende dalla sua popolosità. E qui cominciano i problemi perchè il complesso sistema di divisioni che permette di determinare quanti seggi vanno alle diverse forze politiche porta con sé un numerosi resti, che rendono impossibile un’assegnazione matematicamente perfetta delle poltrone. Non solo, il numero totale dei seggi a disposizione può influire direttamente sulla ripartizione di medesimi: è il paradosso dell’Alabama.

Il paradosso dell'Alabama
Nel 1880 gli Stati Uniti aumentarono i seggi al Congresso da 299 a 300. Tutti si aspettavano che uno Stato avrebbe avuto un deputato in più. Invece due Stati guadagnarono un seggio, mentre l’Alabama ne perse uno. Questo accade perché, aumentando il numero dei seggi e mantenendo invariato il numero degli elettori, i resti aumentano in maniera diversa tra i vari Stati o collegi e può capitare che due Stati ne superino un terzo.

Regione
Votanti
P Seggi
Regione
Votanti
P
Seggi A 600 42,86% 4 A 600 47,14% 5 B 600 42,86% 4 B 600 47,14% 5 C 400 14,38% 2 C 400 5,72% 1 Totale 1400 100% 10 Totale 1400 100% 11

Ma un sistema elettorale matematicamente giusto e politicamente sostenibile esiste? Sembra proprio di no: lo ha dimostrato nel 1963 il matematico americano Kenneth Arrow. Arrow stabilì che un sistema elettorale perfetto deve soddisfare 4 condizioni:
1) ogni elettore deve poter esprimere un insieme di preferenze
2) nessun elettore con il suo singolo voto deve poter decidere la sorte della consultazione elettorale
3) se ogni elettore preferisce un candidato a un altro, la classifica finale deve riflettere questo dato
4) se un elettore preferisce un candidato a un altro, l’inserimento di un terzo candidato non deve modificare questa preferenza.

La democrazia non sa far di conto
Secondo Arrow non è però possibile ipotizzare alcun sistema che soddisfi contemporaneamente queste 4 condizioni. In particolare, il voto di ogni elettore può sempre modificare l’esito della consultazione.
Dobbiamo concludere che la vera democrazia è un concetto matematicamente inarrivabile? Probabilmente sì: i sistemi algebricamente meno equi danno vita a governi stabili e con maggiorane tali da poter prendere decisioni. Al contrario quelli più corretti disgregano così tanto il potere da rendere impossibile governare.
"Ridurre la democrazia a un’equazione matematica è però decisamente riduttivo" conclude Galasso, "le componenti da considerare nella progettazione di un sistema elettorale sono tante e spesso in contrasto tra loro: la soluzione ideale non esiste e occorre quindi studiare formule che smussino gli angoli e le contraddizioni".

18 maggio 2010
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