Scienze

Chi è Inge Lehmann e perché è importante

Chi era Inge Lehmann, la geofisica danese che per prima ipotizzò che il nucleo terrestre non è un'unica sfera liquida ma è costituito da due parti: un nucleo interno e uno esterno con proprietà fisiche molto diverse.

Se oggi conosciamo un po' meglio il centro della Terra lo dobbiamo anche e forse soprattutto a una donna: Inge Lehmann, una scienziata danese che nel 1936 scoprì, attraverso l’analisi dei sismogrammi di terremoti avvenuti in Nuova Zelanda, che il nucleo della Terra è suddiviso in due parti: una interna, che in base alle conoscenze attuali dovrebbe essere solida, e una esterna (quella scoperta da Richard Dixon Oldham), che presumibilmente si comporta come un fluido.

Inge Lehmann era nata a Copenaghen nel 1888 dove frequentò la scuola pedagogica-progressiva superiore diretta da Hanna Adler, una zia di Niels Bohr. Dopo aver finito la scuola, studiò matematica e infine si appassionò alla geologia e divenne assistente del geodetico Niels Erik Nörlund, il quale le assegnò la mansione di allestire osservatori sismologici in Danimarca e Groenlandia. L'inizio del suo interesse per la sismologia risale proprio a questo periodo.

Le sue scoperte nel campo della geologia furono fondamentali. Oltre alla teoria delle due parti del nucleo, Inge Lehmann riuscì a spiegare e interpretare le cosiddette onde P, un tipo particolare di onde sismiche che sono molto veloci (e dunque le prime ad essere registrate dai sismografi).

Il Doodle di oggi (11 maggio, ovvero il 127 anniversario della nascita di Inge Lehmann) può essere l'occasione per scoprire che cosa c'è sotto la Terra e capire i fondamenti della scienza della Terra e dello studio dei terremoti. Proseguite la lettura e diventerete degli esperti.

Il doodle dedicato a Inge Lehmann.

Che cosa c'è sotto terra? Su ciò che accade sotto i nostri piedi sappiamo pochissimo. Le nostre nozioni di base sulla struttura interna della Terra risalgono praticamente a ieri: quando le automobili costruite da Ford iniziarono a rombare sulle strade, non si sapeva nemmeno che la Terra avesse un nucleo. E il fatto che i continenti si spostino sulla superficie terrestre come foglie di ninfea su uno specchio d’acqua (la tettonica delle placche) è di dominio pubblico da appena una generazione. «Potrà sembrare strano» scriveva il fisico Richard Feynman «ma sulla distribuzione della materia all’interno del Sole sappiamo assai di più che non sull’interno della Terra».

La distanza dalla superficie al punto centrale della Terra ammonta a poco meno di 6.400 chilometri. Se si potesse praticare un foro fino al punto centrale e vi si lasciasse cadere dentro un sasso, arriverebbe a destinazione in soli 45 minuti. Purtroppo finora siamo riusciti a scavare verso il centro della Terra solo fori insignificanti. Da qualche parte, in Sudafrica, ci sono miniere d’oro che si spingono fino a tre chilometri sotto la superficie, ma la maggior parte delle miniere non scende a più di 400 metri.

Insomma, facendo le proporzioni, se la Terra fosse una mela non potremmo nemmeno dire di averne bucato la buccia.

Fino a meno di un secolo fa, perfino le persone scientificamente più colte non avrebbero saputo dire nulla di più di un comune minatore su quanto accade nell’interno della Terra: si poteva scavare un po’ verso il basso, ci si imbatteva in rocce di vario tipo, ma la cosa finiva lì.

LA scoperta del nucleo interno. Solo nel 1906, dopo un terremoto avvenuto in Guatemala, il geologo irlandese Richard Dixon Oldham si accorse dall’analisi di registrazioni sismografiche che alcune onde d’urto si spingevano fino a una certa profondità all’interno della Terra per poi essere riflesse come se avessero urtato contro una sorta di barriera. Da questo fatto, egli trasse la conclusione che la Terra dovesse possedere un nucleo interno.


Quattro anni più tardi, il sismologo croato Andrija Mohorovičić esaminò i tracciati di un sisma a Pokuplje (a sud-est di Zagabria) notandovi una deviazione analoga, ma a una profondità assai minore. Aveva individuato il limite tra la crosta terrestre e lo strato immediatamente sottostante: il mantello. Da allora, questa zona viene indicata con il nome di “discontinuità di Mohorovičić”, o più in breve come Moho.

Inge Lehmann nel 1932.

Gradualmente iniziò a prendere forma una vaga rappresentazione della struttura a strati della Terra. Nel 1936 la scienziata danese Inge Lehmann scoprì, attraverso l’analisi dei sismogrammi di terremoti avvenuti in Nuova Zelanda, che il nucleo è suddiviso in due parti: una interna, che in base alle conoscenze attuali dovrebbe essere solida, e una esterna (quella scoperta da Oldham), che presumibilmente si comporta come un fluido.

Sotto pressione. Le moderne ricerche hanno confermato questa ipotesi. Disponiamo ovviamente di conoscenze ricavate indirettamente, ma possiamo pur sempre trarre alcune deduzioni. Per esempio si sa che al centro della Terra regna una pressione talmente alta (circa tre milioni di volte più che in superficie) che la materia lì presente potrebbe sussistere solo allo stato solido. Inoltre si può dedurre dalla storia del pianeta (e da altri indizi) che il nucleo interno abbia trattenuto molto bene il suo calore. È certamente solo una supposizione, ma si ritiene che la temperatura nel nucleo sia diminuita solo di un centinaio di gradi Celsius nell’arco di oltre quattro miliardi di anni.

A quanto arrivi la temperatura nel nucleo terrestre, nessuno lo può dire con precisione; le stime vanno da 3.900 a 7.200 °C; l'ultima è di 6.700 °C.

Le informazioni che abbiamo sul nucleo esterno sono per molti aspetti più scarse, ma tutti concordano sul fatto che sia fluido e che il campo magnetico terrestre abbia origine in questa sede.

Fu nel 1949 Edward Crisp Bullard, dell’Università di Cambridge, in Inghilterra, a enunciare la teoria secondo cui questa parte del nucleo rispecchierebbe grossomodo il funzionamento di una dinamo, generando appunto un campo magnetico. Secondo questa visione, i materiali all’interno della Terra, soggetti ai movimenti di convezione, si comporterebbero come una corrente elettrica che percorra un filo metallico. Che cosa avvenga nel dettaglio non è dato sapere, ma si è piuttosto certi che ciò abbia a che fare con la rotazione del nucleo e con il suo stato fluido.

La struttura della TerRA

Struttura a cipolla. La superficie rocciosa sulla quale viviamo è solo uno strato che avvolge la Terra. Sotto questa crosta solida c’è il mantello, composto da rocce che si trovano in uno stato misto tra liquido e solido, una specie di plastilina. Al centro c’è il nucleo, composto da minerali a base di ferro. Infine, una “nube” di gas (a sua volta composta da più strati) avvolge e protegge tutto il pianeta: l’atmosfera. Clicca sull'immagine per ingrandirla. © Focus

Nascono le scale sismiche. Circa nel momento in cui Inge Lehmann studiava le onde sismiche per conoscere la struttura interna della Terra, due geologi del California Institute of Technology sviluppavano un metodo che permettesse di confrontare due eventi sismici diversi. Si chiamavano Charles Richter e Beno Gutenberg, ma la loro scala di misura finì con l’essere denominata semplicemente “scala Richter” (la cosa non dipese da Richter, un uomo estremamente modesto che neppure chiamava la scala con il proprio nome: preferiva definirla “scala di magnitudo”). La scala Richter era quasi sempre fraintesa: ai tempi, i visitatori che andavano a trovarlo nel suo studio chiedevano spesso di poter vedere la celebre scala, immaginando un particolare congegno. La scala è ovviamente solo un concetto, un riferimento scelto arbitrariamente per misurare le scosse della Terra così come possono essere rilevate alla superficie. È costruita logaritmicamente: l’energia liberata da un terremoto di magnitudo 7,3 Richter è circa 30 volte maggiore di quella di un sisma di grado 6,3 e mille volte più grande di un 5,3.


La scala dà solo una misura dell’energia liberata, ma non dice nulla sull’entità delle distruzioni arrecate da un sisma (a questa domanda tentava di rispondere la scala Mercalli). Una scossa di magnitudo 7 che si verifichi a grande profondità nel mantello può anche non provocare alcun danno, mentre una scossa in sé meno intensa ma alla profondità di 7 chilometri può causare estese devastazioni. Molto dipende anche dal tipo di sottosuolo, dalla durata delle scosse, dalla frequenza e dall’intensità delle repliche, così come dalle caratteristiche fisiche del territorio colpito. Per tutti questi motivi, non è detto che i peggiori terremoti siano i più intensi, anche se l’energia messa in gioco ha un ruolo importante.

IL PIÙ GRANDE TERREMOTO. Da quando esiste la scala Richter, il terremoto più violento avvenne, a seconda della fonte a cui si sceglie di dare credito, nel marzo 1964 nel Prince William Sound, in Alaska (aveva un valore 9,2 sulla scala Richter), o nel 1960 nel Pacifico davanti alle coste del Cile: in un primo momento fu misurato un valore di 8,6, che però fu corretto successivamente da alcune istituzioni (tra cui lo United States Geological Survey) in un immenso 9,5. Come si può già cogliere da questo fatto, la misurazione dei terremoti non è sempre una scienza esatta, particolarmente quando si devono interpretare valori misurati da regioni sperdute.


Il sisma del 1960 non si limitò a causare vasti danni sulla costa del Sud America, ma generò anche un immenso tsunami che, dopo aver attraversato il Pacifico per 10mila chilometri, finì con l’abbattersi sulla città di Hilo, nell’isola di Hawaii, distruggendo 500 edifici e uccidendo 60 persone. Assai peggiore, e indelebile nella memoria di tutti, è stato lo “tsunami di Natale” del 26 dicembre 2004, una delle catastrofi naturali più terribili della Storia.

L’onda assassina fu scatenata da un maremoto nel fondo dell’Oceano Indiano, davanti all’estremità dell’isola di Sumatra. Con la sua magnitudo 9,1 risulta il terzo più grande sisma mai misurato. Furono almeno 231mila le persone che persero la vita in otto diversi Paesi asiatici. E lo tsunami non si limitò a colpire in Asia: si propagò per qualche migliaio di chilometri fino alle coste dell’Africa Orientale e Sudorientale, facendovi ancora qualche vittima. In confronto, il terremoto che lo scorso 29 settembre ha causato lo tsunami alle Samoa, nell’Oceano Pacifico, provocando un centinaio di morti, era di magnitudine 8.


Il tipo più frequente di terremoto si origina dove c’è uno scontro di placche tettoniche, come accade in California lungo la faglia di San Andreas. Le placche spingono una contro l’altra, provocando un costante accumulo di tensione meccanica, fino a che entrambe cedono di schianto.


Quanto più lungo è il tempo che intercorre tra due terremoti, tanto più grande è l’accumulo di tensione e di conseguenza la probabilità di un sisma molto intenso. Ciò è particolarmente inquietante nel caso di Tokyo. Bill McGuire, un esperto di valutazione dei rischi naturali dello University College di Londra, qualifica la capitale giapponese come “una città in attesa della morte”. Tokyo si trova al confine fra tre placche tettoniche, in un Paese che è noto per avere un sottosuolo particolarmente inquieto. Ancora dolorosamente vivi nella memoria sono gli eventi del 2011, quando fu registrato il terremoto più potente del Giappone (magnitudo 9,0, secondo l'USGS). Oppure gli eventi del 1995, quando, a meno di 500 chilometri a ovest della capitale, la metropoli di Kobe fu devastata da un sisma di magnitudo 7,2; le vittime furono non meno di 6.400 e i danni materiali furono valutati in oltre 100 miliardi di dollari.

Il destino di Tokyo. Ma tutto questo potrebbe essere nulla in confronto a ciò che incombe su Tokyo. La capitale giapponese fu già una volta teatro di uno dei più devastanti terremoti dell’Era moderna. Il 1° settembre 1923, poco prima di mezzogiorno, la città fu sconvolta da quello che sarebbe rimasto negli annali come il Grande terremoto del Kantō, che liberò un’energia oltre 10mila volte superiore a quella del sisma di Kobe, facendo oltre 200mila vittime. Da quell’epoca, nel sottosuolo di Tokyo tutto tace; il che è anche più inquietante, perché significa che al di sotto della superficie si sono accumulate ininterrottamente tensioni per 80 anni, senza mai scaricarsi neppure parzialmente. E prima o poi queste tensioni verranno rilasciate. Nel 1923 Tokyo aveva circa tre milioni di abitanti; oggi nella sua area metropolitana vivono oltre 34 milioni di persone. Nessuno ha mai valutato il potenziale numero di vittime, ma si stima che i danni economici potrebbero arrivare addirittura a 7mila miliardi di dollari.


I terremoti lontani dalle faglie. Ancora più inquietanti, perché meno conosciuti e perché possibili ovunque e in ogni momento, sono i più rari terremoti che si verificano ben all’interno delle placche tettoniche. Il fatto di accadere lontano dai margini di placca li rende del tutto imprevedibili. Un esempio particolarmente funesto di questa tipologia è dato dalla serie di tre terremoti che nell’inverno del 1811-12 squassarono la città di New Madrid, nello Stato del Missouri.

Tutto ebbe inizio il 16 dicembre, poco dopo la mezzanotte: gli abitanti della città furono svegliati dai rumori del bestiame apparentemente in preda al panico (che gli animali diano segni di nervosismo nell’imminenza dei terremoti non è un leggenda, ma un fatto ben documentato, anche se nessuno è ancora riuscito a darne una spiegazione precisa); poco dopo avvertirono un possente rumore, come di qualcosa che si stesse spezzando nelle viscere della Terra. La gente si precipitò fuori dalle case e fu testimone di come il suolo si muovesse in onde alte fino a un metro. Nel terreno si aprirono profonde voragini, e un forte odore di zolfo impregnò l’aria.

Il sisma durò quattro minuti e causò terribili devastazioni. Tra i testimoni oculari dell’evento vi fu anche il celebre ornitologo-illustratore John James Audubon, che per caso si trovava nella zona. Le scosse si propagarono in tutte le direzioni, come l’onda di un sasso gettato in uno stagno, e con un’intensità sufficiente a far crollare alcuni comignoli addirittura a Cincinnati, in Ohio, a quasi 500 km di distanza.

Il 23 gennaio e il 4 febbraio seguirono altre scosse di intensità paragonabile. Da allora, a New Madrid tutto è rimasto tranquillo. Ciò non sorprende poiché, a quanto si sa, episodi come questi non si verificano una seconda volta nello stesso luogo. Il prossimo sisma di questo tipo potrebbe verificarsi indifferentemente sotto Chicago, Parigi o magari Kinshasa. E quale può essere la causa di perturbazioni così violente all’interno di una placca? Un qualche processo imprecisato nelle viscere della Terra: più di questo, cioè praticamente nulla, non siamo in grado di dire.


Trivellazioni. Negli anni Sessanta del XX secolo gli scienziati erano talmente frustrati dalla loro scarsità di conoscenze sull’interno della Terra da decidere che fosse venuto il momento, per così dire, di mettere le mani su qualcosa di solido. La loro idea era quella di effettuare una trivellazione sul fondo marino, attraverso la sottile crosta oceanica, fino alla discontinuità di Mohorovičić, in modo da ottenere qualche campione di mantello terrestre che potesse essere analizzato in modo più preciso. Nelle speranze dei ricercatori, grazie a più accurate informazioni sulla natura delle diverse rocce presenti in profondità, sarebbe stato possibile comprenderne le reciproche interazioni, e magari riuscire a elaborare previsioni sui terremoti e su altri eventi.

Il progetto, a cui era stato assegnato il nome di “Mohole” (da Moho hole: buco fino alla Moho), fu un fallimento. L’intenzione era quella di calare una perforatrice nel Pacifico al largo della costa messicana fino a 4mila metri e quindi di scavare un foro attraverso le rocce della crosta, che lì può essere considerata relativamente sottile. Certamente l’idea era folle: fare trivellazioni da una nave su un fondo marino a quella profondità «assomiglia al tentativo di praticare un foro nel marciapiede di New York, dall’ultimo piano dell’Empire State Building, adoperando uno spaghetto» per dirla con le parole di un oceanografo. Tutti i tentativi, infatti, si risolsero in fiaschi. La perforazione più profonda non si spinse oltre i 183 metri, e fin troppo facile fu il gioco di parole con cui il nome del progetto venne cambiato: “Nohole” (nessun buco).


Finisce il viaggio al centro della Terra. Nel 1966 si cominciò ad averne abbastanza dei costi del progetto (che continuavano a lievitare) e dell’assenza di risultati: il Congresso decise di annullarlo. Quattro anni più tardi gli scienziati sovietici tentarono la sorte sulla terraferma scegliendo un sito di trivellazione sulla Penisola di Kola, in Russia, non lontano dal confine con la Finlandia. Si prefiggevano di far arrivare il foro fino a una profondità di 15 chilometri. L’avanzamento si rivelò inaspettatamente arduo, ma i sovietici dimostrarono una lodevole caparbietà. Quando 19 anni più tardi gettarono la spugna, erano penetrati fino a una profondità di 12.262 metri. Se si pensa che la crosta terrestre costituisce appena l’1% del volume complessivo del nostro pianeta e che il foro di trivellazione della Penisola di Kola non attraversa nemmeno un terzo del suo spessore, davvero non si può dire che l’umanità abbia conquistato l’interno della Terra.


Già da questo modesto foro, però, gli scienziati ebbero un bel po’ di sorprese. Sulla base delle indagini sismiche erano infatti convinti che fino a una profondità di 4.700 metri si sarebbero imbattuti in rocce sedimentarie, nei successivi 2.300 metri in graniti e a profondità maggiore in basalti. I dati di fatto furono un po’ diversi: le rocce sedimentarie raggiungevano una profondità del 50% maggiore, e lo strato di basalto non si vedeva proprio. Inoltre faceva molto più caldo di quanto si supponesse: già a 10mila metri di profondità regnava una temperatura di 180 °C, quasi il doppio di quella prevista. Ma ancora più sorprendente fu la constatazione che a questa profondità la roccia era satura d’acqua: una cosa che nessuno avrebbe ritenuto possibile. Insomma, il foro portò solo incertezze.


Dal momento che non è dunque possibile osservare direttamente l’interno della Terra, siamo costretti a servirci di altri metodi. E rivolgerci ancora una volta ai terremoti: nella maggior parte dei casi si tratta infatti di interpretare l’andamento delle onde sismiche che si propagano attraverso la Terra.

Qualche conoscenza sul mantello terrestre ci deriva però anche dai cosiddetti camini kimberlitici, autentici messaggeri degli Inferi. Che hanno questa origine: il magma che si forma a grande profondità risale, lungo canali e spaccature attraverso le rocce, fino alla superficie. Qui il materiale fuso incontra le acque freatiche e il surriscaldamento improvviso dell’acqua genera un aumento esplosivo della pressione di vapore, che schianta le rocce con la potenza della dinamite, scagliando in aria grosse quantità di detriti. Proprio mentre state leggendo queste righe, teoricamente, un camino kimberlitico potrebbe erompere dal suolo sotto la vostra casa con una velocità supersonica.


Questi camini possono essere giacimenti di prim’ordine. Salendo verso la superficie, infatti, il materiale si trascina dietro tutta la roba possibile, tra cui rocce e minerali che normalmente non si troverebbero affatto vicino alla superficie: per esempio peridotite (la roccia più tipica del mantello superiore, composta principalmente da minerali come l’olivina e i pirosseni), singoli cristalli di olivina e del tutto occasionalmente anche diamanti (in un camino su cento). Uno di questi camini kimberlitici ha reso Johannesburg, in Sudafrica, la capitale mondiale dell’industria diamantifera. I geologi sanno che da qualche parte a nord-ovest dello Stato dell’Indiana ci sono indizi dell’esistenza di un camino vulcanico o addirittura un gruppo di camini di enormi dimensioni. In diversi siti di questa regione sono stati rinvenuti diamanti fino a 20 carati, ma nessuno è finora riuscito a determinarne il luogo di origine. Come scrive John McPhee, autore di libri di divulgazione scientifica, il camino potrebbe essere celato da sedimenti di origine glaciale, come il cratere di Manson nello Iowa, o magari potrebbe essere sotto i Grandi Laghi.

A 500 km di profondità è stata scoperta una quantità di acqua “solida” pari a tutti i mari messi insieme.


Per riassumere, tutti gli studiosi sono d’accordo sul fatto che il mondo sotto i nostri piedi sia costituito da quattro strati: una crosta esterna di roccia rigida, un mantello di roccia a comportamento plastico, un nucleo esterno fluido e un nucleo interno solido. Sappiamo che in superficie predominano i silicati, che sono relativamente leggeri e proprio per questo non potrebbero da soli giustificare la densità media del pianeta: è ovvio che nell’interno della Terra vi debba essere materiale più denso. Inoltre sappiamo che, da qualche parte nel profondo, deve trovarsi una fascia dalle caratteristiche di un fluido, costituita in prevalenza da elementi metallici, che genera il campo magnetico terrestre. Di ogni affermazione che voglia spingersi oltre (sulle correlazioni esistenti tra gli strati, sulle cause di questo comportamento e sulle previsioni di comportamento futuro) si può dire come minimo che sia all’insegna dell’incertezza. Persino l’unica parte del pianeta che siamo in grado di osservare direttamente, cioè la crosta, è oggetto di accesi dibattiti. In quasi tutti i libri di testo di geologia si può leggere che la crosta continentale al di sotto dei mari può raggiungere uno spessore di 5-10 chilometri, al di sotto dei continenti di circa 40 chilometri e sotto le montagne più alte fino a 70 chilometri, ma in questo quadro generale si osservano numerose oscillazioni poco spiegabili. Sotto le montagne della Sierra Nevada americana, per esempio, la crosta ha uno spessore di soli 25-40 chilometri. Perché, nessuno lo sa. In base a tutte le regole della geofisica, la Sierra Nevada dovrebbe semplicemente sprofondare, come se si reggesse sulle sabbie mobili (e in effetti alcuni pensano che ciò accada).

Alla domanda su come e quando la Terra si sia dotata della crosta, i geologi si dividono in due partiti: gli uni ritengono che sia accaduto molto bruscamente, poco dopo la nascita della Terra. Secondo altri, la crosta si formò molto più tardi e in modo del tutto graduale. Questi temi sono carichi di emotività. Richard Armstrong, della Yale University, formulò all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso una teoria dello sviluppo precoce e passò il resto della sua carriera a polemizzare con i fautori del punto di vista avverso. Morì nel 1991, e ancora poco prima portò un duro attacco contro i suoi critici su una rivista specializzata australiana di scienze della Terra, accusandoli di propalare fandonie.

Di lui un suo collega disse: «È morto da persona amareggiata».


La crosta e la parte superiore del mantello esterno (rigida) costituiscono insieme quella che viene indicata con il termine di litosfera (dal greco lithos, roccia). La litosfera “galleggia” per così dire al di sopra di uno strato di mantello dal comportamento scorrevole, la cosiddetta astenosfera (dal greco asthenos, cioè privo di forza). Quando si sente dire che la litosfera galleggia sull’astenosfera si potrebbe essere portati a pensare alla spinta di galleggiamento di una boa, ma si è molto lontani dalla realtà delle cose. Altrettanto fuorviante è pensare che le rocce del mantello siano fluide come i materiali che conosciamo sulla superficie terrestre. In realtà, la lancetta delle ore di un orologio si sposta circa mille volte più velocemente di quanto facciano le rocce “fluide” del mantello terrestre.


Non si tratta però solo di movimenti laterali delle placche che compongono la crosta terrestre, ma anche di spostamenti verticali: la roccia sale e scende sotto l’influsso di sommovimenti dominati da processi di convezione termica. Alla conclusione che dovesse esistere un processo del genere, l’eccentrico conte von Rumford era già pervenuto verso la fine del XVIII secolo.

Sessant’anni più tardi, l’ecclesiastico e studioso indipendente inglese Osmond Fisher espresse l’ardita ipotesi che il contenuto interno della Terra potesse essere scorrevole tanto da muoversi avanti e indietro. Ma prima che questa idea trovasse sostenitori sarebbe dovuto passare molto tempo. Quando infine, intorno al 1970, divenne chiaro ai geofisici che razza di sommovimenti si verificassero in profondità, fu per tutti un vero shock. Shawna Vogel lo espresse in questo modo nel libro Naked Earth: the New Geophysics: «Fu come se gli scienziati, dopo aver saputo per decenni che l’atmosfera è fatta di vari strati, si fossero accorti tutto d’un tratto anche dell’esistenza del vento».

Quale profondità raggiunga la convezione che muove le placche è ancora assai controverso. Secondo alcuni specialisti ha inizio a una profondità di alcune centinaia di chilometri, mentre altri propendono per un valore intorno a 3mila chilometri. Solo una cosa si può affermare: procedendo verso il centro della Terra, a un certo punto non ben precisato lasciamo l’astenosfera e ci inoltriamo nel mantello propriamente detto. Considerando che il mantello terrestre rappresenta circa l’83% del volume della Terra e il 65% della sua massa, si può dire che in sé e per sé riceva attenzioni relativamente scarse: i fenomeni che più interessano agli scienziati o alla gente comune si verificano infatti a profondità maggiori (come quelli che determinano il magnetismo terrestre) oppure minori, subito sotto la superficie.

Sappiamo che il mantello fino a circa 160 chilometri di profondità consiste prevalentemente di una roccia nota come peridotite, ma su che cosa ci sia un po’ più in là domina una grande incertezza. Secondo un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Nature parrebbe non essere peridotite, ma molto più di questo nessuno sa dire.

13 maggio 2015
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