La rivista scientifica Nature, una delle più importanti al mondo, ha ritrattato due articoli sulle cellule staminali che aveva pubblicato a fine gennaio, perché i risultati che allora erano stati salutati come una pietra miliare nella ricerca in questo campo sono invece stati ottenuti in modo fraudolento.
La principale autrice del lavoro, l'appena trentenne Haruko Obokata, ha infatti manipolato le prove di laboratorio, ritoccato ad arte le fotografie che dovevano testimoniare il lavoro svolto, ingannato i colleghi e l'istituto in cui lavora (il Riken Center for Developmental Biology di Kobe, uno dei più prestigiosi del Giappone) e preso in giro per mesi una nazione intera e la comunità scientifica internazionale, continuando a sostenere la genuinità del metodo da lei usato per ricavare cellule staminali, capaci di trasformarsi in quasi tutti i tipi cellulari che compongono l'organismo, a partire da globuli bianchi adulti.
UN PO' DI ACIDO. Fino a oggi, il risultato rivendicato da Obokata era stato ottenuto solo attraverso manipolazioni genetiche, che rendono complesso e potenzialmente rischioso il trasferimento della tecnica alla cura di malattie nell'uomo. La ricercatrice giapponese sembrava aver trovato l'uovo di Colombo: per avere le cellule dell'eterna giovinezza, capaci di rigenerare ogni tipo di tessuto e organo, bastava immergere le cellule adulte in una soluzione leggermente acida e il gioco era fatto. Per salutare il risultato aveva persino coniato una nuova espressione, chiamando le sue staminali “Stap” (acronimo di stumulus-triggered acquisition of pluripotency, ovvero pluripotenza acquisita attraverso uno stimolo ambientale).
L'idea di partenza, poi, non era totalmente campata in aria, perché alcune cellule vegetali adulte reagiscono effettivamente così a certe condizioni ambientali, e perché studi precedenti suggerivano che anche quelle dei mammiferi potessero farlo. Per questo in molti ci hanno creduto, nonostante il fatto che uno sguardo un po' più critico agli articoli proposti da Obokata avrebbe dovuto far sorgere qualche sospetto non solo alla rivista Nature, ma anche agli scienziati che hanno dato l'ok alla pubblicazione e, ancora di più, ai collaboratori che hanno firmato i lavori assieme alla ricercatrice (in tutto, una decina).
L'INCHIESTA. Le prime perplessità, in effetti, hanno seguito di poco la pubblicazione, e sono state espresse da blog scientifici che hanno evidenziato che le foto presentate come prove erano palesemente manipolate o duplicate, e da ricercatori che non riuscivano a riprodurre l'esperimento in laboratorio.
Il 17 febbraio, meno di tre settimane dopo, il Riken avviava un'inchiesta interna che nei mesi successivi ha permesso di accertare i fatti.
Haruko Obokata si è difesa strenuamente fino all'ultimo, convocando conferenze stampa, rifiutandosi di ritrattare, respingendo le accuse. Ma dopo che uno dei principali collaboratori l'ha accusata di essere arrivata a inventarsi di sana pianta persino i bagni nella soluzione acida, è capitolata. Per lei la carriera è finita.
Nature si scusa: il nostro obiettivo dovrà essere quello di avere un controllo di qualità e una professionalità ancora maggiori
UNA LEZIONE AMARA. L'intera vicenda dimostra che il metodo scientifico, che si basa anche sulla riproducibilità degli esperimenti, è in grado di stanare chi imbroglia. E tuttavia, la lezione per la comunità degli scienziati è di quelle destinate a lasciare il segno. Nell'editoriale che annuncia la ritrattazione, Nature accusa se stessa di essere stata superficiale e si propone, in futuro, di rendere più stringenti i controlli su ciò che pubblicherà.
Scrive la rivista: «Occorre che tutti noi – chi eroga fondi, i ricercatori, le istituzioni e le riviste specializzate – ci poniamo l'obiettivo di avere un controllo di qualità e una professionalità ancora maggiori, per far sì che i soldi erogati dai governi non siano sperperati e per non tradire la fiducia che i cittadini ripongono nella scienza».