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Perché andiamo (quasi) tutti matti per il calcio?

Le ragioni del successo del gioco del calcio in tutto il mondo, e da sempre, ci riporta al nostro passato di cacciatori. Scopriamo perché.

«Pensare che il calcio siano solo 22 mercenari che tirano calci a un pallone è come dire che un violino è solo legno e budella di gatto, e che l'Amleto è solo carta e inchiostro. Il calcio è scontro e arte», disse una volta John Priestley, romanziere e drammaturgo inglese. Soprattutto, è il più importante rituale tribale dei nostri tempi, aggiunge Desmond Morris, zoologo ed etologo che al tema ha dedicato un libro un quarto di secolo fa, poi riaggiornandolo (La tribù del calcio, Rizzoli). Ed è proprio la sua essenza tribale a spiegarne insieme l'intensità delle passioni suscitate e le enormi dimensioni economiche.

Cacciatori nati. Tutti gli sport, secondo gli antropologi, hanno un'origine tribale, ma il calcio, specifica Morris, riproduce meglio degli altri alcuni rituali fondamentali per la nostra specie. L'idea di partenza è che a renderci diversi dagli altri animali, in particolare le scimmie, sia stata l'attitudine alla caccia, che ha fatto evolvere le nostre caratteristiche fisiche e mentali, rendendoci agili, resistenti, forti, precisi e astuti, e che ci ha costretti alla collaborazione con i compagni. Quando non fu più necessaria per la sopravvivenza, grazie alla coltivazione e all'allevamento, la caccia continuò a scopi ricreativi, sostiene Morris. E, con la nascita dei centri urbani, approdò nelle arene, come il Colosseo, dove solo nella giornata inaugurale, nell'anno 80 d.C., morirono come minimo 5.000 animali.

Il successo di queste forme d'intrattenimento continuò per almeno 500 anni e ne generò altre, tra cui la corrida, ed ebbe il suo stop più importante negli anni Venti dell'Ottocento, quando iniziò a diffondersi un atteggiamento di maggiore umanità nei confronti degli animali. Insieme alla Rivoluzione industriale, che concentrò nelle città grandi masse desiderose di intrattenimento e sfogo, questo aprì le porte al successo dei giochi con il pallone, già praticati in epoca classica, ma rimasti fino ad allora secondari.

Il calciatore-cacciatore cerca la preda: la porta. In che modo, dunque, il calcio rappresenta una pseudocaccia? «Sebbene in apparenza i giocatori sembrino farsi la guerra, in realtà non stanno cercando di distruggersi a vicenda, ma semplicemente di superarsi; allo scopo di perpetrare un'uccisione simbolica tirando in porta», spiega Morris.

In pratica, il giocatore è il cacciatore, il pallone è l'arma e la porta è la preda. Ma dato che la porta è immobile, ci vuole qualcosa che renda la caccia più impegnativa: «La soluzione è quella di porre a difesa della preda inanimata un'altra squadra che renda il più possibile difficili le operazioni di tiro e "uccisione"», conclude Morris.

L'estrema popolarità del calcio rispetto ad altri sport sarebbe dunque dovuta al fatto che riproduce un maggior numero di fasi e di elementi della caccia, come il prendere la mira, il pericolo fisico, l'impeto dell'inseguimento, la cooperazione.

 

Ma non è tutto qui. Altre componenti, infatti, ne garantiscono la penetrazione nella società. L'elemento bellico, anche se non è preponderante, è comunque presente, perché non basta segnare quante più pseudo uccisioni possibili; bisogna superare l'avversario e alla fine ci deve essere un vincitore e un vinto. C'è poi un elemento di "status": se la nostra squadra vince, ci sentiamo gratificati ma, soprattutto, la nostra città o la nostra nazione ne traggono un vantaggio economico: i casi che lo dimostrano sono infiniti.

La fede per una squadra. E c'è una componente pseudo religiosa. Quante volte sentiamo avvicinare l'idea dello stadio a quella del tempio e osserviamo venerare i giocatori più famosi? Quante volte sentiamo parlare di "fede" per una squadra? Sul piano politico, invece, secondo molti,il calcio ha svolto fin dalle origini una funzione di droga sociale.

Nell'Inghilterra del diciannovesimo secolo, i proprietari delle fabbriche dovettero ridurre gli orari di lavoro dei loro operai, lasciando loro nuovo tempo libero. Indirizzarli verso questo sport significava tenerli lontani dai pub e in buona forma: un duplice vantaggio. Molti operai divennero giocatori professionisti, molti padroni delle fabbriche proprietari di squadre e gli altri operai tifosi delle stesse squadre: un risultato perfetto per il sistema capitalistico. Il calcio è poi un business e un'occasione, per imprenditori e ricchi magnati, di riaffermare il proprio primato. Infine, è una rappresentazione teatrale, un intrattenimento di massa che ha col tempo acquisito tutti i connotati dello star business: le grandi stelle, gli show attesi e celebrati, le serate di gala, i fan club e le groupie.

Eroi, emblemi e trofei. È per tutte queste sue sfaccettature insieme che è diventato quello che è: il più grande spettacolo tribale contemporaneo. Uno spettacolo che ha i suoi eroi, i suoi emblemi e i suoi trofei. Al centro della scena ci sono loro: giocatori e allenatori, sempre più pagati, sempre più protagonisti della comunicazione, sempre più idolatrati. I giocatori vengono dallo stesso ambiente lavorativo della maggior parte dei tifosi e hanno spesso alle spalle storie di riscatto e scalata sociale esemplari. Vivono una contraddizione straordinaria perché per affermarsi hanno bisogno da una parte di essere egoisti e concentrati su sé stessi e dall'altra capaci di sacrificarsi per la squadra.

I loro successi, e i loro fallimenti, sono pubblici, e questo richiede che abbiano grande personalità.

Questo non esime molti di loro dall'essere scaramantici, un comportamento riconducibile a quello delle tribù primitive, in cui la vita era piena di rischi e in cui il pensiero magico ebbe origine, ma non solo: «Se riescono a convincersi che le loro azioni bizzarre li faranno giocare meglio, allora sarà così, semplicemente perché i rituali li aiuteranno a ridurre la tensione e daranno loro una maggiore sicurezza e, quindi, una maggiore possibilità di successo», aggiunge Morris.

Quando arriva il gol! Il momento che unisce maggiormente gli eroi al loro pubblico è il gol: i tifosi esultano sugli spalti e i loro beniamini festeggiano l'uccisione simbolica saltando e abbracciandosi. Questo è uno degli aspetti che si sono maggiormente evoluti negli anni più recenti: in passato, ci si limitava in genere a poco più di una stretta di mano tra compagni, oggi invece viene inscenata una vasta gamma di rituali, alcuni veri e propri marchi di fabbrica individuali, che Morris ha catalogato in ben 28 tipologie diverse.

E questo nonostante la tribù del calcio (molto conservativa come si desume ogni volta che avvengono cambiamenti, anche piccoli, nel regolamento di gioco) attraverso i propri "anziani", ovvero i campioni del passato, non abbia accolto bene questi eccessi, in parte per l'origine anglosassone del gioco, in parte perché vengono identificati come i primi segni del passaggio allo show business.

Come tutte le tribù, ogni squadra di calcio ha il proprio simbolo sacro. «La funzione principale dell'emblema è quella di intensificare il sentimento tribale: in qualità di elemento visuale distintivo, la sua presenza rafforza il senso di appartenenza al club», spiega Morris. «In molti casi, l'emblema del club è incorporato nella divisa degli eroi tribali, posizionato sul petto, a sinistra: porlo sul cuore dei giocatori è un atto simbolico importante».

Tori, aquile, cannoni. Spesso si tratta di uccelli o animali selvatici. Un animale feroce può simboleggiare la forza e la determinazione dei giocatori e non per nulla compaiono lupi (la Roma) e leoni (Chelsea) oppure uccelli rapaci, a simboleggiare la velocità e la spietatezza dell'attacco, come il grifone del Genoa o l'aquila che la Lazio ha trasportato nella realtà, facendone volare una in carne e ossa allo stadio nel prepartita, o animali che denotano potenza, come il toro del Torino.

Ci sono armi, come il cannone dell'Arsenal di Londra, guerrieri come il condottiero scaligero del Chievo, torri e fortificazioni, personaggi mitologici come l'Atalanta o elementi che istituiscano un legame con il territorio. Oggi sono diventati anche un'ottima fonte di merchandising per le società.

Il premio per chi vince la caccia, il "trofeo", è oggi in genere una coppa gigante. La sua origine sta probabilmente nell'abitudine greca e latina di passarsi una coppa dalla quale bere, in segno di ospitalità e di onore. Il fatto che abbia assunto proporzioni enormi ha naturalmente a che fare con il rituale della premiazione e della celebrazione, mostrando ai tifosi in un giro di campo e oggi anche in caroselli per la città a bordo di pullman scoperti, il simbolo della vittoria. Sono occasioni in cui la tribù, come allo stadio, celebra la propria appartenenza, facendo sfoggio di bandiere, sciarpe, cappelli, tatuaggi, colori di guerra, suonando tamburi e trombe e intonando cori. Sono le manifestazioni che mantengono intatta la ritualità del calcio.

tifosi da e per sempre. «Uno dei grandi cambiamenti del XXI secolo è l'approdo dei "miliardari stranieri" tra i proprietari dei club», conclude Morris. «I club erano un tempo posseduti da imprenditori locali, che amavano la loro città e avevano legami familiari di lunga data con le loro squadre. Ora i top club possono offrire somme enormi per attirare i migliori giocatori del mondo e questo non aiuta la natura locale e tribale del gioco, eppure non è riuscito a distruggere l'entusiasmo dei tifosi». Il segreto è, appunto, conservare l'identità tribale, il rischio venderla definitivamente allo show business.

(di Federico Bona)

12 luglio 2021
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