Scuola e Università

Compiti a casa: perché sì e perché no

La discussione sull'utilità o meno dei compiti a casa si riaccende come ogni estate. Ecco il confronto tra le tesi di chi è pro e contro.

Compiti a casa sì o no? Ogni occasione è buona per riaprire il dibattito. Soprattutto d'estate con i "famigerati" compiti delle vacanze. Il dibattito sull’utilità del lavoro a casa coinvolge tutto il sistema scolastico. Ben due ministri dell’istruzione si sono espressi contro: nel 2012 Francesco Profumo, favorevole alla limitazione dei compiti in “presenza di altri stimoli”, nell'estate 2013 Maria Chiara Carrozza, molto critica sui compiti estivi.

Evidentemente i compiti non sono un problema solo per chi deve farli. Si interrogano sulla loro utilità e quantità le istituzioni, i genitori, gli insegnanti, i pedagogisti. Quasi tutti d’accordo sulla necessità di non caricare troppo i ragazzi di lavoro extrascolastico commisurandolo con l’età e le ore passate in classe. Ma per alcuni non è una questione di misura: i compiti andrebbero semplicemente aboliti perché dannosi e di nessuna utilità per l’apprendimento.

Pro e contro
Ad auspicare una vita scolastica senza pomeriggi chini sui libri è Maurizio Parodi, pedagogo e dirigente scolastico in servizio presso il Coordinamento genitori democratici nonché autore dell’eloquente Basta compiti! (Sonda editore)[Perché i compiti a casa servono].

Crede nel loro valore, invece, Manuela Cantoia, coordinatrice delle attività formative dello Spaee (Servizio di psicologia dell’apprendimento e dell’educazione in età evolutiva dell’Università Cattolica di Milano) e coautrice del libro Come si impara. Teorie, costrutti e procedure nella psicologia dell’apprendimento (Mondadori).
[Perché i compiti a casa non servono].

Perché sì

La funzione dei compiti è legata al lavoro che si fa a scuola. Per avere la massima efficacia devono avere un feedback da parte degli insegnanti (che purtroppo non sempre li guardano). Così non solo viene riconosciuto un valore all’impegno richiesto, ma gli insegnanti hanno anche modo di verificare eventuali difficoltà.

Ruolo chiaro
I compiti non devono necessariamente “piacere” però gli studenti devono capire bene a che cosa servono. Per esempio, leggere a casa tutti i giorni in prima elementare serve ad automatizzare il processo di lettura. E così per le tabelline in seconda. Altro “compito dei compiti”: permettono di fare collegamenti, favoriscono l’apertura mentale, stimolano curiosità e attenzione (per es. con ricerche e approfondimenti), consolidano il metodo di studio e l’autonomia. In generale, i compiti dovrebbero riprendere l’attività svolta in classe con una sfida in più, affinché vengano messe in atto più capacità e stimolato l’interesse.

Imparare il metodo
Alle medie e alle superiori i ragazzi sono chiamati anche a studiare da soli e memorizzare: questo è un lavoro che ha senso se i docenti hanno insegnato un metodo di studio (l’uso delle mappe, le sottolineature, gli schemi, le linee del tempo...), altrimenti diventa un esercizio di memoria e le nozioni apprese si perdono facilmente. È quello che succede quando si studia solo per la prestazione. Si chiama apprendimento difensivo e avviene quando lo studente punta a rispondere semplicemente alle prestazioni richieste dalla scuola: studia per superare una verifica, ma non impara niente. Le informazioni ben elaborate, invece, restano, o comunque si riapprendono molto velocemente.

Supporto di fiducia
Alle primarie quasi tutto il lavoro viene svolto in classe, dove le maestre indirizzano anche sul metodo di studio. A casa i bambini non devono studiare ma recuperare il lavoro svolto e sistematizzarlo. Spesso i genitori non hanno chiare le aspettative degli insegnanti e pretendono dai piccoli prestazioni che la maestra non intendeva richiedere. Ci vuole più fiducia dei genitori sia negli insegnanti sia nei bambini.

Il compito dei prof
Anche se per un compito “ideale” l’80% del lavoro a casa dovrebbe poter essere svolto in autonomia fin dalla prima elementare, la famiglia fa la differenza. Talvolta, i genitori non sono in grado di supportare il lavoro dei figli. E non sempre quello che è indicato per un ragazzo va bene per un altro. Un compito troppo facile può far perdere la fiducia nel senso del lavoro, uno troppo difficile rischia di incrinare l’autostima del ragazzo. Dare compiti, è il caso di dirlo, è un compito molto delicato, ma non vuol dire che vada abolito.

Tolgono tempo.
Nessuno ha mai dimostrato l’utilità dei compiti: si assegnano, e si svolgono, perché lo si è sempre fatto; non si pensa a possibili alternative e nemmeno ci si preoccupa di giustificare un impegno così gravoso che toglie tempo ad altre attività (sport, arte, musica, spesso ignorate dalla scuola) e può causare rigetto per lo studio, un’attività invece eccitante quando sia frutto di ricerca e ispirata da desideri autentici. Se i compiti servissero a consolidare gli apprendimenti e ad acquisire un metodo di studio, allora dovrebbero essere svolti a scuola: è qui che si deve imparare a imparare.

Discriminanti. I compiti sono uguali per tutti. Ma non tutti gli studenti sono allo stesso livello e ognuno ha il suo modo di imparare: per qualcuno farli è semplice, altri devono impegnarsi molto di più, troppi non riescono. Inoltre risultano avvantaggiati gli scolari che possono contare sul sostegno della famiglia.

La didattica cooperativa.
La scuola ignora gli stili cognitivi dei ragazzi. Ogni persona usa strategie ed espedienti mentali per affrontare determinati compiti. Gli insegnanti per lo più ignorano il modo con cui i loro allievi apprendono e le loro potenzialità; pretendono riflessione, attenzione, memoria senza indicare i “gesti mentali” da compiere. Talvolta basterebbe che i ragazzi confrontassero fra loro le rispettive strategie per superare le difficoltà di chi non riesce. Se si chiedesse allo scolaro che meglio ha risolto un problema, ostico per altri, di spiegare ai compagni come è arrivato alla soluzione, la volta dopo tutti avrebbero uno strumento in più. È il principio del mutuo insegnamento, ma la didattica cooperativa è assente nella scuola.

Abitudini.
L’apparato scolastico funziona per postulati non dichiarati: più si ascolta più si apprende (e invece i ragazzi hanno una capacità di ascolto molto limitata); a scuola si insegna, a casa si impara (ma l’apprendimento deve avvenire in classe)... Tutto procede sui soliti binari, secondo riti e tradizioni obsolete. Si pensi al “tema”, la forma di scrittura più utilizzata e, tra l’altro, bandita già dai programmi del 1985. Per un ragazzo svolgere un tema significa scrivere per forza, sapendo che tutto ciò che scrive potrà essere usato contro di lui. Per non parlare della lettura: che piacere può scaturire da un libro letto per dovere, sezionato con accanimento?

Problem solving.
Inoltre la scuola continua a promuovere le abilità cognitive più basse (la memorizzazione di contenuti da ripetere a comando) ignorando le strategie cognitive più evolute come il problem solving o il pensiero divergente. La selezione per merito privilegia chi ricorda meglio. Ma si tratta di memoria a breve termine, utile ai fini di un’interrogazione. Poi non resta nulla: le

23 gennaio 2014 Emanuela Cruciano
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