Che mondo sarebbe senza il caffè? Solo a pensarci, agli assidui bevitori delle 1,6 miliardi di tazze che se ne consumano nel mondo viene da... sbadigliare. Eppure secondo uno studio dei Royal Botanic Gardens di Londra pubblicato sulla rivista PLOS ONE, la varietà più consumata di questa bevanda, l'Arabica, rischierebbe di sparire in natura entro il 2080. Ci restano quindi solo 70 anni per fare incetta di espressi? I pronipoti potrebbero crescere senza mai conoscerne il celestiale aroma? Non è proprio così. Vediamo come stanno le cose.
Innanzitutto, il caffè che finisce nelle nostre tazzine non proviene da piante selvatiche, ma da una variante genetica "addomesticata" di quelle presenti allo stato brado. In ogni caso la moria delle piante selvatiche di Arabica renderebbe i raccolti industriali geneticamente vulnerabili a malattie e parassiti. «La storia dell’Arabica è punteggiata di malattie, parassiti e problemi di produttività» spiega Aaron Davis, a capo dello studio «i coltivatori sono sempre ricorsi alle varietà selvatiche usandone la diversità genetica per risolvere i problemi dei raccolti».
Le principali varietà di caffè coltivato sono due: l'Arabica, che proviene dalla pianta selvatica Coffea arabica, e la Robusta (che deriva dalla pianta Coffea canephora). Ma in natura esistono più di 125 specie di piante di caffè, molte delle quali non ancora scoperte. L'Arabica costituisce il 70% circa della produzione globale di caffè. La maggior parte di essa deriva, geneticamente, dalle piante presenti in Etiopia, il più importante paese produttore di caffè di tutta l'Africa. È su questo luogo, e su alcune parti del Sud del Sudan, che si concentra lo studio.
Osservazioni sul campo e proiezioni computerizzate che considerano i diversi scenari di cambiamento climatico hanno evidenziato prospettive "profondamente negative": anche nel caso più fortunato, due terzi dei raccolti scomparirebbero entro il 2080 (la totalità, invece, nel peggiore scenario delineato). E questo solo a causa dei cambiamenti climatici, nella fattispecie un innalzamento della temperatura di pochi gradi. Le proiezioni sono fin troppo ottimistiche, perché non tengono in considerazione altri fattori, come possibili malattie, cambiamenti dei periodi di fioritura delle piante, deforestazione e conseguente riduzione del numero di uccelli, che disperdono i semi favorendone la diffusione.
Le piante della varietà Arabica crescono tipicamente nelle zone più alte della vegetazione delle montagne tropicali. Vivono quindi già all'estremità dell'ecosistema e in caso di aumento delle temperature, non hanno un luogo più fresco dove instaurarsi. E in Etiopia la temperatura media annuale è cresciuta di 1,3 gradi Celsius dal 1960, in base a un report del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo.
Che cosa si può fare? Per ora, suggeriscono gli scienziati, sarebbe utile conservare i semi delle piante più a rischio nelle Seed Bank - le cassaforti che conservano le sementi dei vegetali più preziosi e indispensabili per la biodiversità. Potrebbero tornarci utile un domani, quando la tazzina sarà mezza vuota.
Un'altra conseguenza del global warming: il termometro sale, i pesci si restringono